- Aghori Mhori Mei – The Smashing Pumpkins
- 2 Agosto 2024
- Martha’s Music/Thirty Tigers
Uno sguardo rivolto al passato, senza troppe pretese, se non quello di scalzare gli ultimi due passi falsi in salsa synth pop che rientrano poco nelle corde della band statunitense. Le cinquantatré tracce di “Atum” e “Cyr” avevano sconfortato, e non poco, i fan nuovi e di vecchia data. Non che questo “Abbraccia la Bella Morte” (la traduzione di “Aghori Mhori Mei”, composta da un mix tra sanscrito e giapponese, dovrebbe essere questa) riporti ai fasti di “Mellon Collie And The Infinite Sadness” “Siamese Dream” o “Gish”, ma non si può nemmeno gridare allo scandalo. Ma se questa ultima opera degli storici Smashing Pumpkins ha alcuni spunti interessanti dal punto di vista musicale, non si può dire lo stesso riguardo i testi, piuttosto banali, in linea col Corgan degli ultimi quindici anni.
Emblematica la partenza, con un suadente giro chitarristico con echi kyussiani, che poi esplode, dopo circa un minuto, nel sound tipico del gruppo di Chicago. Riaffiorano però i demoni del frontman, che, nella sua fase di scarsa creatività, lancia invettive abbastanza sterili all’inesorabilità e alla ripetitività del tempo. Già sentito.
L’obiettivo di ricongiungersi con il passato è evidente, sia nei brani più ballad, come la dolce “Pentecost”, accompagnata da un tappeto orchestrale e da riff di pianoforte veramente ben riusciti, o nelle tracce maggiormente heavy, quali la successiva “War Dream Of Itself”, molto dura e cadenzata. Ma anche qui il canovaccio è lo stesso: musica sempre curata e d’impatto, parole ovvie, che non incidono. Anche nella più enigmatica “Pentagrams”, dove i musicisti danno sfoggio del loro meglio, il frontman propone un testo che non esalta minimamente il suo genio nineties, ma si limita ad un semplice trattato sull’amore.
Parafrasando le parole del recentemente defunto Albini, la terza traccia di “Aghori Mhori Mei” rispetta l’algoritmo di sconvolgimento: sicuramente la più riuscita dell’intero album sia dal punto di vista musicale che da quello lirico, “Sighommi” potrebbe sicuramente far parte degli Smashing Pumpkins degli albori, senza però risultare obsoleta ai giorni d’oggi.
E se il singolo appena citato rispettava le intenzioni esplicitate dal cantante fondatore del progetto, che riguardo quest’ultimo lavoro sosteneva che “Durante la composizione del nuovo album mi ha incuriosito il logoro assioma, ‘non puoi tornare a casa di nuovo’, che personalmente ho riscontrato essere vero nella forma, ma che mi ha fatto pensare ‘e se ci provassimo comunque?’. Non tanto nel guardare indietro con sentimentalismo, ma piuttosto come mezzo per andare avanti, per vedere se, nell’equilibrio tra successo e fallimento, il nostro modo di fare musica dei primi anni 90 poteva funzionare ancora”, in altri casi, come in “Who Goes There”, il sound è risultato datato, e forse lo sarebbe stato addirittura ai tempi del discusso “Adore”.
Andando avanti, è sempre più evidente il filo conduttore dell’intera opera: con “999” infatti si susseguono riff interessanti a slanci piuttosto “telecomandati”, così come il testo, seppur non del tutto sterile, presenta delle strofe degne di un ventenne alle prime armi.
La soave “Goeth The Fall” mostra uno schema già visto: ballata alt pop, senza gioie né dolori, che passa senza tocco ferire. Mentre la successiva “Sicarus” è composta da una struttura metal più complessa, sicuramente maggiormente degna di nota, con vari cambi di ritmo non fini a sé stessi ed un testo che, sebbene non esaltante, sembra più profondo dei precedenti.
La chiusura è affidata a “Murnau”, un sunto dell’intera fatica: poco più che sufficiente, migliore degli ultimi lavori, ma lontana anni luce dagli sfarzi iniziali. L’anima pop esce fuori in tutto il suo ego e come sempre il sound è giusto, ma nulla più.
Gli Smashing Pumpkins sopravvivono al tempo, molto più di altre band, ma ci auguriamo che tornino a vivere e ci regalino le perle degli anni Novanta, in chiave moderna.