Tuesday Music Revival: John Lennon – John Lennon / Plastic Ono Band

Review

Voto
9.2/10
Overall
9.2/10
  • John Lennon – John Lennon / Plastic Ono Band
  • 11 Dicembre 1970
  • ℗ Calderstone Productions Limited [UMG]

“Non credo nei Beatles”

Dopo la caduta di quella che è con tutta probabilità la più grande band della storia, il baronetto di Liverpool dovette fare i conti con un nuovo tipo di solitudine, che oramai aveva quasi dimenticato, e con una serie di demoni interiori difficili da scacciare. 

I Beatles ormai erano storia vecchia e tutti (ora anche il mondo) sapevano che non sarebbero mai potuti ritornare. Già da prima del loro scioglimento però, John e Yoko avevano provato a tastare il terreno, con tre progetti di musica sperimentale. Gli “Unfinished Music”, divisi in due volumi, non avevano ottenuto probabilmente il risultato sperato. E dopotutto non è che lo meritassero, e cosi anche il “Wedding Album”. 

Nel profondo però qualcosa si stava muovendo. Durante il corso del 1970, la coppia iniziò un percorso di terapia psicologica, in California, rinominato “Primal Scream”. Quello che emerge dalla terapia è per Lennon quasi liberatorio. Escono fuori tutti i traumi del passato legati alla morte della madre quando John era solo un adolescente, l’abbandono da parte del padre in tenera età, fino alla rottura con i Beatles. Tutti spunti interessanti per chiudere un buon disco. 

plastic ono band

All’inizio del 1970 John e Yoko pubblicano “Instant Karma!”. Successo istantaneo. Un milione di copie vendute e i vertici delle classifiche americane e inglesi. Nessun altro Beatle ci è riuscito, fino a quel momento. Tra le fila degli addetti ai lavori spiccano i nomi di Phil Spector, che nel mentre stava lavorando a “Let It Be”, alla produzione e Klaus Voormann, che poi sarà anche all’interno di “Plastic Ono Band”, al basso. 

Durante l’estate del 1970, a due mesi dall’uscita di “Let It Be”, Lennon inizia a registrare una serie di demo ispirati al percorso di terapia intrapreso insieme alla moglie. Tornato in Inghilterra, nell’autunno dello stesso anno, e prenotati gli Abbey Road, il viaggio di “Plastic Ono Band” può incominciare. Insieme a Voormann e Ringo Starr, John da il via alle registrazioni. Spector curerà solo una parte della produzione, mentre del resto si faranno carico lo stesso Lennon e Yoko Ono. La schiera di musicisti darà vita a un disco che ritorna agli standard iniziali del rock, contaminato dalle influenze statunitensi di cui John aveva fatto tesoro durante la sua permanenza oltre oceano. I pochi strumenti (Batteria, Pianoforte, Basso e Chitarre), sono stati fondamentali per la creazione di un ambiente essenziale, “sporcato” dalle tematiche crude e schiette, di un John Lennon come non si era mai visto. 

Il disco, che è stato registrato parallelamente a quello di Ono (Yoko Ono/Plastic Ono Band), poggia fondamentalmente su quattro pilastri, “Mother”, “Working Class Hero”, “Love” e “God”. Tante altre canzoni, contenute al suo interno, creano un profilo perfetto di un disco assolutamente imperfetto, come gran parte dei suoi lavori post-Beatles. L’altra faccia della medaglia, mostra invece un artista che ha completamente messo da parte la paura di rischiare, tanto dal punto di vista autoriale, quanto dal punto di vista degli arrangiamenti, che, in diverse occasioni, prendono spunto dal blues o dal folk. 

I rintocchi di una campana danno il via alle danze. “Mother” fa luce su uno dei, probabilmente, più grandi problemi della vita di Lennon. L’abbandono, non voluto, da parte della madre, morta quando lui era solo un adolescente, e quello del padre, che ha deciso di lasciare la famiglia quando John era molto piccolo. La sensazione di abbandono sarà uno dei capi saldi della sua vita, più flebile durante la sua militanza nei Beatles, e poi nuovamente forte nella sua carriera da solista. Le ritmiche cadenzate di Ringo e i morbidi accordi di piano sfociano in urla disperate di un John che implora sua madre di non morire e suo padre di tornare da lui. 

Il delay sulla chitarra di Lennon porta “Hold On” su ambienti più calmi, a tratti ottimisti. La traccia però non arriva al risultato sperato, risultando si una composizione pregevole, ma non così interessante. In “I Found Out” tornano le voci graffianti, anche la strumentazione si fa più cupa. Il basso si sporca e Ringo schiaccia l’acceleratore sulla ritmica. Su questa traccia blues-oriented, chi dirige la baracca, non è Lennon, completamente pervaso da una vena narcisista, ma Voormann, che mette in piedi una linea di basso energica, gonfia e sublime. 

“Working Class Hero” esplora sonorità folk, quasi Americana sotto certi punti di vista. Qui Lennon fa una critica alla borghesia, frantumando la speranza di tanti “comuni mortali” di dare un migliore aspetto alla loro vita. L’arrangiamento è esteso solo a chitarra e voce, mentre John si autoproclama il “pastore” di una generazione. “Se vuoi essere un eroe, seguimi”. 

La chiusura del primo lato del disco, è affidata a “Isolation”. Qui il blues e il soul si intrecciano in una maniera perfetta, per una traccia che forse non ha avuto l’apprezzamento che si meritava. 

In “Remember” si ritorna a premere sull’acceleratore, ma con più cautela rispetto a “I Found Out”. La traccia rimane comunque morbida, mentre i tre musicisti giocano con cambi di tempo, pianoforti martellanti e esplosioni attraverso cui Lennon rievoca la “Guy Fawkes Night”, una festa inglese. “Love” è il terzo pilastro su cui “Plastic Ono Band” regge. È una ballata dolce e struggente in cui Lennon lascia il piano a Spector, per concentrarsi su chitarra e voce, gli unici strumenti di cui la canzone è composta. Assumerà un’importanza maggiore diversi anni più tardi quando, dopo il suo assassinio, verrà pubblicata come singolo. 

A questo punto il disco attraversa un’ulteriore fase di debolezza. “Well Well Well”, traccia di sei minuti, completamente scollegata dal filo conduttore del disco, ha tutte le sembianze di un riempitivo. Lennon torna sul rock and roll, ma con una traccia che, seppur abbia degli spunti anche interessanti, stona con il resto del disco. Discorso più o meno analogo per “Look At Me”, scritta durante le sessioni del White Album, nel 1968.

Sul finire del disco, la situazione però cambia. Perché Lennon tira fuori dal cilindro un capolavoro. Non solo una delle sue migliori canzoni, ma una delle più belle mai scritte. “God” è la canzone per “Andare avanti e farsene una ragione”; È il momento in cui Lennon chiude pubblicamente con i Beatles.

Ma è anche il momento in cui, nonostante Yoko e uno spiccato egocentrismo, sembra apparire più solo che mai. Il piano di Billy Preston crea la struttura melodica drammatica perfetta, che lascia spazio solo per la voce di Lennon. Seguono una sfilza di idoli in cui Lennon non crede, persino Dio, definito come un costrutto dell’uomo, altre cose in cui un tempo credeva ed ora non crede più. E poi. “Non credo più nei Beatles”. Un silenzio tombale mette la scritta fine su una delle band più importanti nella storia della musica. Il sogno è finito, e bisogna farsene una ragione. Non c’è più nulla in cui possa credere, se non in sé stesso. E in Yoko.

A seguire la traccia di chiusura del disco c’è una piccola composizione acustica dal titolo “My Mummy’s Dead”. 

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