- Kendrick Lamar – To Pimp a Butterfly
- 15 marzo 2015
- ℗ Aftermath/Interscope (Top Dawg Entertainment)
Si potrebbe voler dire che questo è un disco da dover contestualizzare all’interno di una finestra temporale in particolare, ma la verità è che da quel marzo di nove anni fa, il tessuto sociale (americano in questo caso) non è cambiato granché.
Con i tre dischi precedenti, il ragazzo di Compton, ha creato una mole di aspettative talmente alte da far impallidire chiunque. Dischi d’oro, di platino, Grammys e tour sono la parte probabilmente più bella della carriera di tutti gli artisti. Come tutte le cose, però, c’è anche il lato opposto della medaglia. La distanza dagli affetti più cari, la pressione costante e le relazioni altalenanti sono tutti fattori che inficiano in maniera pesante su tutti, soprattutto quando sei un ragazzo timido e a cui non piace stare sotto i riflettori 24 ore su 24. Per Kendrick Lamar, tutti questi disagi si sono incanalati nel suo miglior disco fino a questo momento.
Con una citazione a “Il buio oltre la siepe” (“To Kill a Mockingbird” in lingua originale), il rapper losangelino si immerge in un’attenta analisi sul collasso del sogno americano, costernato da irreparabili spaccature sociali, diseguaglianze e l’incapacità di difendere i propri ideali. Insieme all’aiuto di un vero e proprio esercito di produttori (da Boi-1da a Pharrell Williams), il rapper losangelino crea un vero e proprio ecosistema, che regge su fondamenta caratterizzate dalla massima espressione della Black Music, dal free-Jazz ad un leggero funky. Non è solo la scelta dei suoni a dare un’impronta incredibile all’album, ma il livello di attitudine. Concepito inizialmente come “To Pimp a Caterpillar”, questo disco non è solo un richiamo a 2PAC, ma è un tentativo (a distanza di quasi 10 anni si può dire ben riuscito) di entrare in un tipo di ambiente, che proprio 2PAC ha contribuito a creare.
“To pimp a butterfly” non si preclude nulla, nemmeno quando entrano in gioco, Snoop Dogg come in “Istituzionalized” o Rapsody o George Clinton. Ogni sfaccettatura di questo disco è nel posto giusto al momento giusto.
Nell’apertura, “Wesley Theory”, “Every Nigga is a star” poggia su una linea melodica a metà fra soul e funk, prima che il rap dello stesso Kendrick stravolga completamente la traccia. Il ritmo cadenzato di “King Kunta”, riferimento a Kunta Kinte, segna una delle canzoni, insieme a “i” e “How Much a Dollar Cost”, uno dei pilastri che sorreggono questo progetto. Proprio “i” ha tutte le carte in regola per essere il banger radiofonico dell’album e, nonostante questo tipo di tracce abbiano bisogno di “scendere a compromessi” con alcuni tipi di standard, Lamar resta fedele alla sua linea.
“Alright” è un altro dei capi saldi di “To Pimp a Butterfly” tra sax stonati e vocalizzi, Kendrick Lamar, prova a cercare un bagliore di speranza in un mondo di ingiustizie sociali. È un contrasto netto con “U”, traccia precedente, che appare invece più cupa. Il fantasma di 2PAC, che ha “infestato”, in un modo o nell’altro, tutto il disco, diventa più nitido nella traccia di chiusura del disco. I 12 minuti di “Mortal Man” defluiscono in un’intervista da Kendrick a PAC, a colpi di Black Culture, razzismo, la fama e l’apparire. Gli ultimi due punti sono forse quelli che inizialmente il rapper di Compton, non aveva preso in considerazione, ma con cui si è dovuto, a un certo punto, trovare a fare i conti. Eppure 2PAC, non è l’unica figura importante di questo disco. Ci sono richiami a Martin Luther King, Malcom X, Nelson Mandela.
Nel disco emergono anche sfaccettature particolari di una relazione sentimentale tra il rapper e una donna, ribattezzata Lucy. Una rappresentazione del diavolo, da cui l’artista cerca di mantenersi lontano.
Poi ci sono gli interludi. Se questi ultimi, di solito sono le tracce che vengono prese meno in considerazione, in questo caso, non hanno meno contenuto delle tracce classiche, anzi, sono il tassello mancante per l’immaginario (non molto immaginario), che Lamar ha creato su “To Pimp A Butterfly”.
A distanza di quasi dieci anni da quel 15 marzo del 2015, questo disco si conferma un Anthem incredibile, non per il modo in cui gli afro-americani vengono dipinti, ma per il forte messaggio di consapevolezza che ci porta a realizzare che domani potremmo non essere più su questa terra e che bisogna vivere cercando costantemente di migliorare noi stessi.
A distanza di quasi dieci anni da quel 15 marzo del 2015, questo disco dimostra di meritare di essere inserito nei “Greatest Hits” del rap, accanto ai mostri sacri a cui è ispirato.