- Three Bells – Ty Segall
- 26 Gennaio 2024
- Drag City Inc.
Sembrano ormai lontani anni luce gli esordi garage, con lunghe e ripetute schitarrate rumorose. L’evoluzione verso un rock alternativo sofisticato, notevolmente influenzato dalla psichedelia di beatlesiana memoria, trova pieno compimento in “Three Bells”, un album maturo, completo che consacra una carriera già lunga di un artista non propriamente veterano, ma ormai tra i più influenti della scena alternative. Ty Segall è l’emblema di come un artista possa progredire nel tempo continuando a divertirsi: il suo essere scanzonato dei primi album non si è perso, ha subito una trasformazione, elevandosi ad un livello più alto, non per forza migliore, ma di certo a più ampio spettro.
Se già con i precedenti “Hello, Hi” e “Harmonizer” era facile notare una svolta sonora, quest’ultima opera segna un confine netto con ciò che è venuto prima, alzando notevolmente l’asticella per le produzioni future. Già con i tre singoli “Void”, con un’apertura degna di Steven Wilson, delle dissonanze alla Primus ed una totale rottura intorno alla metà, con echi alla Jethro Tull, l’acida “Eggman” e la beatlesiana “My Room”, si capisce la complessità dell’album e lo stravolgimento del sound precedente.
Sono ben quindici i brani per più di un’ora di musica, aperti dalla dolcezza iniziale di “The Bell” e conclusi dalla più enigmatica “What We Can Do”, dove l’eco psych sixties è veramente preponderante.
Veramente molte le perle di quest’album, a partire dalla più acida “I Hear”, con schitarrate dissonanti che si amalgamano al ritmo cadenzato si fondo, quasi un omaggio a Bowie, così come “My Best Friend”, dove il falsetto del poliedrico artista statunitense si frappone alla durezza delle chitarre. Degna di nota anche “Reflections”, la più ancorata al precedente post-punk, con un cantato influenzato nuovamente da McCartney e soci.
Circa a metà si arriva però al capolavoro, che si distacca da tutti gli altri pezzi, con una struttura blues, sempre di stampo psichedelico, che però sfocia nel new prog, dove emerge la splendida voce di Denée, consorte del musicista. Poco più di tre minuti sperimentali, ma in nessun tratto noiosi. L’album varrebbe l’ascolto anche solo per questo brano.
Più intricata e cupa, ma altrettanto armoniosa, “Watcher”, nella quale Ty Segall si erge a “osservatore, assassino della memoria”. Ma le vette più alte vengono toccate nuovamente con “Repetition”, ossessiva nella musica e nel testo quanto mai “ripetitivo”, e dalla successiva “To You”, dove la psichedelia raggiunge l’apice e tocca nuovamente il progressive rock, accompagnata da un testo teoricamente semplice, ma contorto nella pratica. Altro passaggio perfetto di un album che sfiora l’eccellenza.
Più semplice “Wait”, calma e distesa fino al primo minuto per poi lasciar spazio nuovamente ad un post-punk, che strizza l’occhio nuovamente al Duca Bianco.
La semplicità del testo della canzone dedicata alla moglie (con la semplice ripetizione del titolo, nonché nome della donna, per tutta la durata della traccia) non trova conferma nella musica e nella struttura, composta per gran parte del tempo da una jam di pregevole fattura. Una lettera d’amore quanto meno atipica, ma di sicuro apprezzata.
Si apre quindi definitivamente un nuovo capitolo della carriera del quasi quarantenne americano, in un percorso costellato da molti alti e pochi scivoloni. Ad un passo dalla perfezione, nella speranza che il prossimo step ci stupirà ancora di più.