Hadsel

Beirut: La recensione di “Hadsel”

  • Beirut – Hadsel
  • 10 Novembre 2023
  • ℗ Pompeii Records

L’isola di Hadsel, in Norvegia, raccoglie i fallimenti, la depressione e la rinascita di Zach Condon e del suo progetto “Beirut”. Il disco di Condon è a tutti gli effetti una dedica, a quel posto che ha salvato la sua carriera, e in un certo senso la vita. Dopo “Gallipoli”, il cantautore del New Mexico si era trovato davanti ad una serie di problemi non di poco conto: gli strascichi di una depressione che si portava dietro dalla giovane età, problemi fisici che gli hanno impedito di portare avanti il tour. Ha dovuto fra le altre cose mettere da parte la band. 

Eppure non ha mollato. 

Condon parte per la Norvegia, si stabilisce a nord, in un’isola chiamata Hadsel, che poi darà il titolo al disco. Da li è tutto un susseguirsi di crescendo emotivi, che l’artista riesce ad inserire perfettamente nelle dodici tracce di questo disco. Le atmosfere nordiche, un senso di solitudine ingigantito dal periodo pandemico, e un organo del 1800 creano la scintilla che accende questo disco. 

Tutti i problemi fuoriescono dalla mente di Zach. La depressione, i drammi irrisolti dell’adolescenza e quella vocina che ti ricorda che probabilmente non potrai più cantare come prima, si scontrano con le aurore boreali, le bellezze e le pericolosità dell’ambiente circostante. E si trasformano in canzoni. Hadsel mescola le sezioni orchestrali, principalmente di ottoni, a cori, elementi elettronici, tutti guidati dalle linee melodiche di organo.

Hadsel

Il disco si apre con la title track. Un pattern sostenuto di organo, fa da tappeto per le melodie delle trombe e le armonie vocali. Ma quello che emerge subito, oltre ad un’atmosfera quasi “sacra”, è la voce di Condon. L’artista sceglie volutamente di non portarla in primo piano, lasciandola in balia degli arrangiamenti strumentali. 

In “Arctic Forest” il disco vira verso atmosfere rurali dalle sonorità antiche. Il pezzo viene guidato da sezioni ritmiche legnose, mentre delle cantiche di cui non si conoscono le parole danzano sulla traccia. 

Le sezioni ritmiche si riducono al minimo indispensabile, come nel caso di “The Tern”, in cui sembrano quasi attingere a strutture elettroniche minimal, o “Island Life”, dove si mescolano allo strumming dell’ukulele. Quest’ultimo strumento ha un ruolo molto più importante di quel che sembra all’interno di “Hadsel”. È proprio dall’ukulele che parte l’arrangiamento di “So Many Plans”, che va al di la delle atmosfere del disco, mantenendo delle sonorità più nitide. 

In “Baion” porta alla luce tutti i momenti di solitudine, in un vortice trombe e organi. Il crescendo emotivo raggiunge l’apice nei suoni granulosi di organo in “Melbu” che tira fuori una progressione estremamente forte, quasi con lo scopo di permetterti di scavare dentro te stesso. 

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