Italia

I Hate My Village: la recensione di “Nevermind The Tempo”

  • Nevermind The TempoI Hate My Village
  • 17 Maggio 2024
  • Locomotiv Records

Ma cosa stiamo ascoltando? Una domanda più che lecita quando si schiaccia play e si inizia ad approcciare al nuovo esperimento del supergruppo composto da componenti di spicco di altre band, come Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle). Ma a questo gli I Hate My Village ci avevano già ampiamente preparato con il loro omonimo d’esordio e con la pura sperimentalità dell’EP “Gibbone”. Insomma, non si può di certo dire che non ci avevano avvertiti, così come è impossibile non ammettere che i fan del math rock non stessero aspettando con trepidazione che il quartetto lombardo/romano sfornasse un nuovo prodotto. Dunque, l’attesa è finita, non resta che godersi il risultato.

L’incipit di “Nevermind The Tempo” è quanto più math acido si potesse chiedere: poliritmie dove la voce deve farsi strada ed incastrarsi in una moltitudine sonora. Iniziamo bene, molto bene.

 “Water Tanks” risulta più scanzonata già dal giro iniziale, quasi afrobeat, con rimandi innegabili all’album precedente. Di sicuro il pezzo più “orecchiabile” e semplice dei dieci presentati, ma non per questo banale. È ballabile, nella maniera di Ferrari e soci.

La struttura sonora rimane invariata anche in “Italiapaura”, con un ritmo serrato che anticipa il classico jingle della chitarra. Seppur nella sua brevità (circa due minuti e mezzo) il brano si apre e si chiude di continuo, quasi come un giro su un ottovolante. L’ascoltatore viene quindi sballottolato tra chiusure sonore, ingresso di nuovi strumenti, cambi di ritmo inattesi, che lo trastullano in un trip musicale a tratti assurdo. Tutto questo potrebbe essere racchiuso in una sola parola: perla.

Non c’è un attimo di tregua, nessuna pausa rilassante: “Eno Degrado” porta la sperimentazione a vette molto alte, ma nelle quali i quattro musicisti si muovono con disinvoltura invidiabile. Non c’è nulla di fuori posto o di esagerato, nonostante il caos generato dalla moltitudine di suoni e rumori. Perfetti, inoltre, l’inizio e la chiusura, con un click che anticipa il tempo e un re “battuto” dalla chitarra distorta, un richiamo non troppo lontano dall’inizio “Eulogy” e la chiusura di “Third Eye” dei Tool.

Il mezzo passo falso arriva a metà album, con l’esoticaMauritania Twist”, dove la voce di Adriano Viterbini (eh si, ha iniziato anche lui a cantare in questo progetto) emula uno strumento e segue la melodia arabeggiante. Il pezzo prosegue con un susseguirsi di traccia/ritornello sicuramente interessanti, ma non al pari del resto dell’opera.

L’hype si rialza subito dopo: la successiva “Erbaccia” parte in modo soffuso con quello che sembra un carillon rotto, per poi aprirsi in suoni industrial in continuo crescendo. Non ci sono particolarità, cambi di tempo o stranezze varie, il pezzo scorre liscio, senza intoppi, ma tremendamente bene.

Se “Jim” ha uno stile di canzone più classico, la strumentale Dun Dun” potrebbe tranquillamente fungere da colonna sonora di un film: il ritmo tribale fa da tappeto a suoni sospesi, inquietanti e ipnotici, fino a un minuto dal termine della canzone, dove un’improvvisa interruzione e rallentamento del tempo precede il reprise finale, che ripropone la melodia precedente.

La struttura che sembra normale, si trasforma per trenta secondi a metà di “Come una poliziotta”, lasciando spazio a rumori e ad una sorta di beatbox, prima di riprendere il giro iniziale e concludere gli ultimi venti secondi con un richiamo improvvisato del beatbox precedente. Mai come in questo album la band si è divertita.

La ballata finale è la degna chiusura di un’opera immensa come “Nevermind The Tempo”, con una psichedelia di fondo che permea l’intera traccia. Una sorta di brano trip hop sospeso, pronto anch’esso per divenire una soundtrack di un film.

“La differenza principale è che questo disco è nato con la volontà di essere un disco di canzoni e questo ha fatto sì che tutto il processo fosse diverso. Il primo disco era stato concepito per essere strumentale e la voce si è aggiunta solo in un secondo momento. Adesso abbiamo una consapevolezza diversa e abbiamo voluto innanzitutto esplorare la forma canzone” sostiene in un’intervista al Rolling Stone Marco Fasolo. E come dargli torto, il cambio di passo risulta evidente fin da subito.

“La cosa interessante di questo gruppo è che ognuno è fan degli altri e per questo disco qui ci siamo fortemente ispirati a noi stessi”. Forse proprio con queste parole di Viterbini si può spiegare l’evoluzione del sound: da progetto di superband, con artisti provenienti da realtà diverse e parallele, a gruppo musicale vero e proprio, dove ognuno ascolta e completa l’altro. Un passaggio epocale, che sembra solo l’inizio di un percorso duraturo.


/ 5
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Tanz Akademie: La recensione di “Hullabaloo”

  • Tanz Akademie – Hullabaloo
  • 26 aprile 2024
  • ℗ Overdub Recordings

La musica di oggi è tutta mediocre, specie quella italiana. Quante volte abbiamo sentito questa frase, e negli ultimi anni sempre più spesso. Eppure, i Tanz Akademie sono l’ennesima conferma di quanto queste parole siano insignificanti per chi tutti i giorni ha voglia di scavare sotto la superficie del panorama musicale odierno. 

“Hullabaloo” è il titolo del disco di debutto di una delle scoperte più interessanti di questo 2024, nella scena musicale italiana. La band piemontese, composta da Francesco Nada (Sax, chitarra), Luca Assisi (chitarra), Matteo Boglietti (corno francese), Giovanni Lo Vano (Voce, Chitarra), Matteo Cicolin (batteria) e Michele Reggio (basso), ha registrato il disco in una sola settimana, ma l’album non è nato in sette giorni. Hullabaloo è il risultato di anni di prove, concerti andati male, amicizia e il giusto compromesso tra ferocia e dolcezza. 

Sebbene questa miscela di post-punk, alt-pop e jazz sia ormai un ingranaggio ben oleato, almeno fuori dall’Italia, i Tanz Akademie ci insegnano una lezione importante. Qui c’è ancora qualcuno che ha il coraggio di rischiare. 

Hullabaloo

Il disco è un vorticoso susseguirsi di emozioni. Speranza, frustrazioni e rinascita colorano il cupo viaggio della band alla ricerca di un momento di luce. Il collante di questo progetto risiede nel titolo. “Hullabaloo” è baccano. E il baccano non ha fazione. Può scaturire dalla felicità, dalla rabbia, da una disperata richiesta d’aiuto o da un evento che desta sorpresa, o ancora, e questo sembra ciò che il sestetto ama di più fare, un tentativo di colmare un silenzio assordante.

Ci hanno insegnato che quando un neonato ha bisogno di chiedere qualcosa piange. Quando quel neonato cresce impara a dosare il tono della voce in base a quello che ha da chiedere. E più queste richieste si fanno disperate, più il tono della voce si alza. Questa potrebbe essere la risposta perfetta per definire “Hullabaloo”. Nonostante il frastuono, le energiche chitarre punk e i toni fiabeschi dei fiati, la band trova ampio spazio di analisi sul rapporto tra la vita e la morte, sulla salute mentale, sui legami familiari e sull’essenza della giovinezza. Ci sono così tanti spunti di riflessione, che spesso si rischia di influenzare in maniera negativa un disco. Non è questo il caso. 

L’album si apre con “The Vampire”, primo singolo di anticipazione, pubblicato all’inizio dell’anno. La traccia è leggera, un contrasto netto con il testo, che invece si insinua all’interno di una relazione tossica, costernata da morbosità e illusioni, in bilico fra un rapporto a metà fra ciò che è reale e ciò che è invece frutto dell’immaginazione umana. In “The Ghost”, uscito anche esso come singolo, le pesanti distorsioni sulle chitarre creano il trampolino di lancio per l’ingresso degli ottoni, che danzano con lo spoken word di Lo Vano. Tutta la canzone ruota intorno a turbamenti psicologici, dove l’angoscia iniziale data da un fantasma che infesta una casa si appiattisce nel momento in cui lo si inizia a considerare come una figura amica.

Il ritmo cadenzato di “Trst” vaga verso atmosfere dai Goth leggere e riverberate, prima di gonfiarsi sui “La La La La” del finale. Su “Tomorrow” virano verso pulite sonorità “Buckleiane” risvegliandosi sulle sporche linee di basso di “The Wake”. I tocchi di piano di “Geisterwalzer” ci catapultano in atmosfere che sembrano provenire da un altro disco. Eppure la traccia strumentale lunga appena due minuti, risalta incredibilmente bene all’interno di questo progetto tentacolare. “Special Town” e “Widows” ritornano più forti che mai alle cifre stilistiche che il gruppo ci ha sparato dentro le orecchie nelle prime tre tracce di “Hullabaloo”.

“Lollipop” è a meta fra un walzer da saloon e una fiaba, mentre in “The House” la quiete torna ad essere la protagonista. Le distorsioni si spengono e sui dolci arpeggi di chitarra Lo Vano ci traghetta verso un incredibile composizione dai tratti post rock. Un po’ Squid, un po’ Fontaines D.C. la band assesta il colpo finale con le ambientazioni oscure dell’ultima traccia cantata del disco, “Venice”. A chiudere questo incredibile esordio è “The House (Reprise)”. Qualcuno è arrivato alla fine del viaggio, ha trovato la luce e lontano, forse all’interno di quel tunnel descritto in precedenza risuona ancora quel “la la la la”, dolce e spensierato. O forse anche qui, come in “The Vampire” è tutta un’illusione.  

/ 5
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The Spell Of Ducks: La recensione di “L’autostrada dei fiori”

  • The Spell Of Ducks – L’autostrada dei fiori
  • 29 aprile 2024
  • ℗ The Spell of Ducks

A distanza di quattro anni dal loro ultimo disco, “The Spell Of Ducks” tornano con un nuovo EP di sei tracce dal titolo “L’autostrada dei fiori”.

La band indie-folk torinese composta da sei elementi, voce, chitarra, banjo/tastiere, basso, batteria e violino, è piuttosto insolita nel panorama italiano. Mentre fuori, trovare band folk di questo tipo sembra molto semplice, anche in contesti mainstream, in Italia si tende all’omologazione. Non è il caso di “The Spell Of Ducks”. E questo è il primo punto positivo di questo progetto. 

Tutti i background sonori dei sei componenti, che spaziano dal country-folk di matrice americana al cantautorato italiano, confluiscono nella palette sonora della band, che nel 2017 li porta ad essere etichettati come “Artista del Mese” da MTV Italia. Quella di MTV è solo uno degli sfizi che il gruppo si è tolto. Tra lo spazio211, le lavanderie ramone e il palco dell’Ariston a Sanremo, “The Spell Of Ducks” hanno collezionato solo nel 2017 una lista di più di 60 date sparse in tutto lo stivale. 

L'autostrada dei fiori

Il disco prende il nome dalla strada che da Torino porta al mare e, se vogliamo, può essere descritto in un certo senso come un diario di viaggio. Tra le istantanee di vita quotidiana e l’importanza delle piccole cose, ciò che è vivido in “L’autostrada dei fiori” è proprio l’atmosfera del viaggio. Ed è così che alcune delle canzoni sono state scritte, in viaggio. Il disco è stato registrato tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024 al V3 recording studio, in provincia di Alessandria, con la supervisione di Davide Ghione, che ne ha curato mix e master.  

 All’apertura del disco, i fischi e lo strumming di chitarra acustica di “Boccadasse” creano proprio quell’aura di spensieratezza di un viaggio. Nelle ritmiche cadenzate di “La vita adulta” si insinuano i tratti folkloristici delle linee melodiche della fisarmonica. Con questa traccia in particolare, emerge l’importanza del cantautorato italiano. In “cartoline”, la band vola oltreoceano attraverso una traccia che attinge pesantemente ad un tipo di country americana ormai dimenticato. Con questa traccia, una delle più forti del disco, “L’autostrada dei fiori” si trasforma nell’autostrada dei ricordi, prima di defluire in “T’immagino così”.

Ormai il suono è settato su un indie-folk di matrice americana. La band stacca per la prima volta il piede dall’acceleratore, perdendosi nel calore degli arpeggi di chitarra acustica, e delle sottili melodie di violino. Per il testo è tutto un altro discorso. L’impronta di cantautorato italiano resta profonda, dimostrando di poter coesistere perfettamente con la mole di stili che si scontrano in questo progetto. Su “Balla Morfeo”, i toni sembrano raffreddarsi, mentre la band torna a offrire spunti interessanti nella ballad chitarra/voce di chiusura, “Lungomare”.

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Carmelo Pipitone: La recensione di “Piedi in acqua”

  • Piedi in Acqua – Carmelo Pipitone
  • 26 Gennaio 2024
  • Carmelo Pipitone / Freecom Srl

Piedi in acqua è la terza fatica in studio di Carmelo Pipitone, già noto come chitarrista e cofondatore dei Marta sui tubi e per le esperienze più recenti nei supergruppi Dunk e Ork. Tra cantautorato, folk, progressive e accenni di metal (per sintetizzare), il suo è un sound consolidato, il risultato di una miscela personale, mai banale, che scava nell’animo umano tessendo melodie sempre nuove. Dopo i primi due episodi sotto la supervisione sonora di Lef, compagno di band negli Ork, la produzione questa volta è affidata al polistrumentista Federico Fiamma.

Rispetto al precedente Segreto pubblico, dove l’apporto di più strumenti e gli arrangiamenti riconducono ad una certa familiarità con gli ultimi lavori internazionali, questo disco sembra recuperare l’immediatezza di Cornucopia. Gli strumenti sono ridotti al minimo, scompare la batteria (solo rari interventi ritmici), per restituire alle chitarre il compito di mantenere le coordinate emozionali. Le atmosfere sono a tratti più dilatate e fumose, altre volte si condensano in ballate medievali oppure in paesaggi progressive e ambientazioni da blues psichedelico.   

La voce trova in una poetica rinnovata il modo di esplorare con ancor più forza gli stessi territori in cui si inoltrano le chitarre, variando con naturalezza tra italiano, dialetto siciliano e inglese. Ancora una volta, il musicista siciliano si cala nei panni di un mutaforme, che cambia volto e personalità in base alle vicende narrate. 

piedi in acqua

Schietto, sincero e a tratti ermetico, ci consegna 13 tracce in cui si fa spazio la poesia del veroun vero e proprio Verismo fatto in musica contaminato da immagini minimali, storie, riflessioni ad alta voce e sentimenti contrastanti, affreschi della società e uno sguardo che va sempre al di là del provvisorio. Il tema ricorrente del mare e dell’acqua diventa centrale in questo album.

La title track Piedi in acqua è un’intensa ballad sulla metafora del mare, immagine presente anche nell’evocativa Le vesti non servono più, dove “l’acqua la roccia leviga”, che si potrebbe considerare uno dei significati principali che sta dietro a tutte queste canzoni. Carmelo Pipitone ripropone il dialetto siciliano in Pinzeri, una “nenia”, come canta lui stesso, in cui si lascia andare in riflessioni dolciamare sui pensieri, che si insinuano, si rompono e poi tornano in qualsiasi momento. Compare anche in U’ riavulo a mo’ di scioglilingua amalgamato alle ritmiche. È un vero e proprio componimento in stile medievale con accenni dissonanti e nel finale urlati e distorti. 
L’autore è molto a suo agio in queste vesti, basti ascoltare Il re è nudo.


In altri brani sembrano riecheggiare le atmosfere unplugged dei grandi del grunge, in particolare gli Alice in chains. È il caso della già citata Piedi in acqua e di Veleno, commovente e automotivante, una lettera aperta alla vita, una dichiarazione di resistenza nonostante tutto. Sono dei momenti intensi, riverberati, in cui c’è una predisposizione d’animo quasi da preghiera, come in Odessa.
La formula acustico/elettrico è ormai un marchio di fabbrica, così come le fughe progressive di Sono stato, un affresco delle sfaccettature dell’animo umano, e di Meravigliosa, un brano che i cultori del genere potrebbero accostare al tributo “PFM canta De André”.

Ci sono poi territori sonori desolanti e nebbiosi, in cui Tempo Peste nera trovano campo libero per adagiarsi su un blues psichedelico e western.  Sotto questa nebbia, si intravede l’ambientazione western anche nel finale di Altri mondi, che apre ad interpretazioni e consapevolezze sulla vita che volge al termine, con la possibilità di immaginare altri mondi, siano essi terreni o emotivi, da cui ripartire. 

La chiusura è affidata a L’america, dolce e malinconica, quasi come a stare con i piedi in acqua alla riva di un fiume a guardare tutto il panorama di emozioni, colori e suggestioni della vita.

E quel respiro finale sintetizza l’atto liberatorio di un cantautore che affida agli ascoltatori una gran parte di sé, il capitolo di una trilogia solista (finora) che conferma Carmelo Pipitone come un mutaforme eclettico che sa stare con disinvoltura dentro e fuori gli schemi.

/ 5
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Subsonica: la recensione di “Realtà Aumentata”

  • Realtà Aumentata – Subsonica
  • 12 Gennaio 2024
  • Sony Music Entertainment

Con quasi trent’anni di carriera sulle spalle, i Subsonica non hanno bisogno di presentazioni. Il loro stile inconfondibile, che fonde rock, pop ed elettronica, è un marchio di fabbrica storico della band torinese. Nonostante le loro note influenze, cha spaziano dalla psichedelia floydiana al trip hop del Massive Attack, sonorità ad oggi non molto “di moda”, sono riusciti negli anni ad esplodere nel mainstream peninsulare. Questo limbo tra underground e hit delle classifiche li ha resi uno dei gruppi famosi a giovani e meno nel panorama italiano. La loro costante evoluzione, partita del capolavoro dell’album omonimo fino alla sperimentazione di “Mentale Strumentale”, con alcuni scivoloni di percorso, li ha portato ai nostri giorni con un’opera degna di nota. Si tratta di un ritorno alle origini, con la maturità di chi non ha più vent’anni. Un percorso nella loro storia musicale che ha portato Samuel e compagni ad un “nuovo inizio”, dopo il rischio non troppo velato di scioglimento a causa di dissidi interni, dove gli strumenti cercavano di emergere piuttosto che creare un suono unico.

In questo panorama si pone “Realtà Aumentata”, un manifesto granitico che esprime appieno il desiderio della band a mostrare il loro lato migliore. Con testi taglienti e mai scontati, la band critica vari aspetti della società moderna, come il continuo ricorso all’apparenza sfrenata, il tutto con sonorità familiari, che cullano l’ascoltatore verso lidi conosciuti e piacevoli.

A seguire “Cani Umani” che già dal titolo fa capire una sua natura più peculiare e sperimentale, “Mattino di Luce” ripercorre un canovaccio da eseguito dai Subsonica, sicuramente un po’ ripetitivo, ma non sgradevole. Anzi, forse era proprio quello che ci voleva.

La conferma di questo ritorno alle origini viene ribadito in una frase di “Pugno Di Sabbia”, dove Samuel afferma a gran voce che “c’è un passato che non passa mai”. Anche qui il terreno è pianeggiante e permette un cammino costante e senza intoppi, ma veramente piacevole.

Se con “Universo” si rimane sospesi nelle note vocali, quasi contrastanti rispetto ad un ritmo incalzante, l’atmosfera cambia radicalmente con “Nessuna Colpa”. Una base più cupa fa da sfondo ad un testo rappato, che esplode nel ritornello, che ribadisce il concetto espresso nel titolo.

Nuovamente rarefatta la seguente “Missili E Droni”, che fonde dolcemente la chitarra acustica ed il pianoforte con un tema elettronico, creando un turbine molto interessante.

Si arriva ad un crossover con i rapper Ensi e Willie Peyote ed i fiati di Paolo Parpaglione ed Enrico Allavena. Il brano è godibile e l’ensemble improvvisato è ben riuscito, anche se è quanto di più lontano dai Subsonica dell’intero album.

La band torinese continua a stupire con la seguente “Africa Su Marte”, la più lunga ma anche la meglio eseguita di questa loro opera ultima. Sonorità tribali, elettronica onnipresente di stampo dance, poche parole ma ben dosate valgono la palma di migliore brano dell’album per distacco, una vera perla.

Questo mood prosegue in “Grandine”, facendola sembrare la prosecuzione naturale del pezzo precedente, per poi sprofondare nell’intimità folk di “Vitiligine”, una ballad in piena regola con echi psichedelici, che permette all’orecchio di rilassarsi e all’animo di sognare.

La degna conclusione è affidata a “Adagio”, soundtrack dell’omonimo film. Dura, cruda e oscura, insolita per la band ma quanto mai azzeccata per descrivere le vicende descritte da Sollima. Potrebbe anche segnare una svolta nel sound di Casacci e soci e se il buongiorno si vede dal mattino, il futuro sembra piuttosto sereno.

Un nuovo inizio, una sterzata forte, un ritorno alle origini. Qualunque sia la strada intrapresa, ben venga tale scelta.

/ 5
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Jaufenpass: La recensione di “Cloud’s Eye”

  • Cloud’s Eye – Jaufenpass
  • 8 Dicembre 2023
  • ℗ Shimmer Moods Records

Uno sguardo al cielo. Un viaggio sonoro in bilico tra semplice e complesso. Uno spaccato di realtà in cui la natura e la tecnologia riescono a coesistere insieme. Si potrebbe andare avanti ancora per ore per descrivere il disco di debutto di “Jaufenpass”.  In “Cloud’s Eye” elettronica e ambient trovano l’armonia per convivere perfettamente, creando un ambiente onirico ricco di loop processati e riprocessati, suoni ambientali, stratificazioni e palette organiche. “È il viaggio che esplora la bellezza delle nuvole e la complessità del cloud computing”, è la spiegazione che da l’artista sul progetto.

Il modo con cui si potrebbe quindi definire “Cloud’s Eye”, altro non è che, il contrasto tra ciò che riteniamo semplice (la natura, le emozioni) e ciò che invece ci sembra essere complesso. È quest’ultimo che riesce ad avere lo spunto più interessante sul disco. La complessità dipinta attraverso loop elaborati, che simboleggiano la costante evoluzione, ripetitività della vita moderna e familiarità.

Tra i droni e i loop, l’artista trova spazio per strizzare l’occhio ai glitch, come nel caso della traccia di apertura “Cloud#1” o “ricordo#1”, dove tra i suoni ambientali e sensazioni sonore vagamente assomigliabili a quelle della pioggia, trova spazio per strutture di rumori. “Cloud’s Eye” non perde occasione per dare la giusta importanza anche alla melodia. Lo fa con “Le Murier Noir”, una traccia da sei minuti, ricca di sonorità sci-fi, in cui sulle strutture di droni, Jaufenpass sviluppa un groviglio di melodie capaci di aprire la traccia, prima che i glitch prendano nuovamente il soppravvento.

In “Ricordo#2” la complessità sembra svanire, si ritorna nuovamente alla semplicità delle nuvole, con soffici melodie di synth. “Legér” è una delle tracce più emozionanti, i loop lavorati ricreano una sensazione di crescente tensione che si abbandona ai suoni della natura di “Cloud#3”. La chiusura “Paranoie/Altra” ritorna alle sensazioni descritte all’inizio del disco, ma la semplicità si paralizza sul finale, quando i loop si velocizzano, chiudendo di fatto Cloud’s Eye.

/ 5
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Six Impossible Things: La recensione di “The Physical impossibility of death in the mind of someone living”

  • Six Impossible Things – The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living 
  • 27 Settembre 2023
  • ℗ Six Impossible Things

L’opera di Damien Hirst, del 1991, sancisce la nuova alba dell’ormai non più duo Lombardo. Con “The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living”, I Six Impossible Things abbandonano le sonorità minimali che avevano contraddistinto gran parte dei lavori precedenti in favore di un Dream-pop più corposo, e con un’alta percentuale di contaminazioni sonore. Per la corretta riuscita di questo progetto, Nicky Froditto (Tastiere) e Lorenzo di Girolamo (Chitarre), cercano il supporto del basso di Enrico Tosti (Give Vent) e della batteria di Andrea Daniele, per portare ad un livello successivo quelle aure intime e pure che dall’inizio avevano contraddistinto i due artisti. 

Scritto interamente a quattro mani dal duo originale, “The Physical Impossibility…” è stato poi lavorato al “La Distilleria”, dove, con l’aiuto di Daniele Mandelli e Maurizio Baggio, che hanno curato registrazioni, mix e master, la band è riuscita a trovare il connubio perfetto tra Dream-Pop, Emo e Post Rock, per un disco che affonda gli artigli in tematiche quali l’isolamento e la nostalgia. 

Ad aprire il primo lavoro della band dal 2021 è “Lemme Give Your Heart a Break”, una ballad dai toni soffici, completamente pervasa dalla malinconia. La sezione ritmica incalza perfettamente le melodie pulite di chitarra, mentre la traccia esplode in armonie vocali e piccoli sprazzi di distorsioni. “Twenty Something” ha un’atmosfera più cupa, in cui tonalità cruncy e voci riverberate dai tratti emo, creano l’attacco perfetto per il ritornello migliore di questo disco. La traccia, composta da De Girolamo, uscita come singolo di anticipazione a giugno, è anche quella che incarna meglio la prima wave Dream-Pop, che dall’Inghilterra è esplosa in tutto il mondo. 

Six Impossible Things

“Happy” trasmette di tutto, tranne che felicità. La band mette momentaneamente da parte la ritmica, concentrandosi su melodie stratificate e un sottile filo di chitarre distorte e armonie vocali. “…mind-Forg-d Manacles”, che vede la collaborazione di Sittingthesummerout, si sposta verso sensazioni Dark-Wave, trasportate dai ritmi sincopati della batteria di Daniele. È una traccia carica di rumori e inquietudine, ma che dura solo un momento, prima che un colpo di rullante ci porti alla chiusura del disco, in un ambiente di cui oramai abbiamo fatto l’abitudine. “What’s Left Of Me” suona come una marcia funebre. La chitarra di De Girolamo si insinua tra le percussioni sporche, mentre l’unica cosa che appare “pulita” è la voce di Froditto. La traccia trova spazio anche per strizzare l’occhio ad un tipo di emo di fine anni’90.   

/ 5
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April Clocks: La recensione di “Rituals”

  • April Clocks – Rituals
  • 17 Dicembre 2023
  • ℗ April Clocks

Il secondo disco, a distanza di poco più di un anno dal debutto, di April Clock, progetto del musicista di Rimini, Danilo Betti, impila strati di droni, suoni ambient e nebbiosi suoni elettronici. 

Il viaggio di Betti, iniziato con un semplicissimo negozio di dischi, si è evoluto verso altri orizzonti, artistici e non, che ad oggi lo vedono a capo dell’etichetta Mixed Up. Dal punto di vista artistico, invece c’è molto di più, perché “It Takes Time” è in realtà un secondo debutto per l’artista, che si era presentato al pubblico con “Due Linee”, EP risalente al 2014 e “Deaf Youth”, del 2018.

Da li più nulla, almeno fino al 2022. 

Se “It Takes Time” si sviluppava attorno a generi di particolare ispirazione per Betti, dal proto-ambient allo shoegaze, in “Rituals” la situazione è diversa. Il disco, registrato e mixato al Tower of Disintegration nel corso del 2022, è più profondo, ipnotico ed enigmatico. Le tracce si muovono verso paesaggi più cupi e irrequieti, dove la palette sonora è dominata da droni e suoni ambientali dai tratti Sci-fi.

L’album si apre con “Hypersleep”, forse la traccia più calda presente in “Rituals”. Lunga poco meno di tre minuti, è un’intensa stratificazione di suoni granulari. “A Cure” è più minimale. I suoni ambient prendono il controllo del pezzo, tra pioggia e ambienti subacquei, danzano vibrazioni metalliche e rumori. Mentre le prime due tracce del disco erano caratterizzate da una scelta minimalista, in “Ceremony” il gioco cambia. La canzone si gonfia, i paesaggi eterei si espandono e un sintetizzatore sfarfalla per tutti i 5 minuti, verso gli ambienti inquietanti di “Coward”, dove per la prima volta emergono strumenti acustici. 

Con la chitarra acustica filtrata di “Coward”, il disco inizia a passare verso atmosfere più cupe e nebbiose. Ne è la prova “Displaced Euphoria”, in cui i suoni principali, che ricordano vagamente il rumore del vento, si avvinghiano a pulsanti sintetizzatori che crescono man mano che la traccia volge al termine. Tornano nuovamente elementi più melodici, con gli organi di “Wound”, e poi ancora suoni ambient. Tutto il disco è un gioco di luci e ombre, tra melodia e rumore. 

Nella chiusura, “Mirror Being”, i suoni di sintetizzatore, prendono, anche se solo per un attimo, delle strade diverse, apparendo più nitidi, prima di scivolare lentamente nella nebbia in cui “Rituals” è avvolto. 

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Durmast: La recensione di “Requiem”

  • Durmast – Requiem
  • 31 Ottobre 2023
  • ℗ Pirates / Big Lakes Records / ADA Music Italy

Dopo il singolo “Tragedy”, uscito lo scorso settembre, il produttore Durmast, all’anagrafe Davide Donati torna con un nuovo singolo. “Requiem” è un altro tassello nella svolta artistica dell’ex batterista degli Home By Three e Jasmine gli Sbalzi. Con “Tragedy”, il produttore trovato un punto di incontro tra due epoche musicali diverse, mescolando i suoni anni ’80 ad un’elettronica più moderna.

In “Requiem” porta canti gregoriani sui tappeti di suoni elettronici Synthwave. La traccia si apre con un sintetizzatore ridondante, mentre i cori, a bagno nel riverbero, creano atmosfere infinite. Requiem, attinge molto di più ad un’elettronica vintage, con un arrangiamento piuttosto semplice e lineare, che crea uno “stop and go” emotivo tra le varie sezioni della traccia. 

/ 5
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3ONVEGA: La recensione di “Kolorbloks”

  • 3ONVEGA – Kolorbloks
  • 16 Settebre 2022
  • ℗ Luminol Records

Nella scena underground italiana, i 3ONVEGA si posizionano nella zona sicuramente più particolare e al contempo interessante. La band, nata fra Milano e Pavia e composta da Alessandro Emmi (chitarra), Lorenzo Fiori (basso) e Claudio Sambusida (batteria), mescola Math e Prog Rock, ottenendo una miscela incredibile di ritmiche altalenanti e melodie corpose. 

Prima dei 3ONVEGA, i tre componenti hanno affinato la loro tecnica con diverse collaborazioni, che hanno fatto capire loro di cosa potevano essere capaci tutti insieme. Il sodalizio arriva nel 2018 quando decidono di costituire il gruppo. Da lì un’ostinata ricerca del suono giusto, mettendo da parte il post-rock e inglobando nel loro modo di fare musica Math e Prog. 

Nel Novembre del 2022, quattro anni dopo, “Kolorbloks”, EP di debutto, è pronto a vedere la luce, sotto l’ala della Luminol Records.

Alla produzione del disco, la band si affianca a Camillo ed Enrico Crippa, che curano anche le registrazioni delle sei tracce, avvenute al NiCe Studio di Piacenza, nonché il mix del disco. I 3ONVEGA fanno tranquillamente a meno delle voci, ponendo al loro posto i due strumenti melodici che hanno a disposizione, basso e chitarra. Nonostante prendano parecchi spunti sonori da prog e math rock, lasciano in panchina, gli inutili tecnicismi che da sempre hanno fatto parte di questi due generi, tirando fuori delle strutture perfette in quasi ogni sfaccettatura. Scelgono inoltre di non caricare le tracce di troppi elementi sonori, Chitarra, Basso e Batteria, formano lo scheletro di questo progetto, mentre le stratificazioni create con la loop station di Emmi, contribuisce a riempire gli spazi vuoti. 

Su “Hokkaido”, traccia di apertura di questo disco, il basso distorto di Fiori, duella con un suono di chitarra che assume a tratti le sembianze di un vecchio Fender Rhodes, mentre i pattern ritmici di piatti creano un crescendo emotivo che esplode in intensi cambi di tempo. 

La sezione ritmica di Sambusida in “Fembots” porta tutti gli strumenti su strade diverse, eppure riescono a completarsi a vicenda. Ogni traccia, mette da parte arrangiamenti e strutture melodiche tradizionali, trasformandosi in un vortice di concetti e progressioni diversi, ma capaci di mescolarsi insieme, cosa che si vede piuttosto difficilmente nell’ambiente musicale italiano.

Tra i concetti principali del disco, i 3ONVEGA disegnano un ambiente Sci-Fi popolato da robot in grado di provare sentimenti e metropoli retro-futuristiche. “Kolorbloks” è un disco ben confezionato che cerca di combinare elementi meccanici e umani. E ci riesce in ogni sua sfaccettatura.

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