Simone Lecci

Cigarettes After Sex: La recensione di “X’s”

  • Cigarettes After Sex – X’s
  • 12 Luglio
  • Partisan Records

Come suona la sensualità? 
Potremmo chiedere ai Cigarettes After Sex, autori di un dream pop minimale che negli ultimi dieci anni ha fatto sognare milioni di persone.
Anche se la musica cambia velocemente, la band texana non si scompone e rilascia X’s, riproponendo in dieci brani la formula sonora con cui hanno conquistato la fama mondiale prima sul web, poi sui palchi, trasudando sensualità e impulsi passionali contagiosi.
Il mix di influenze musicali, come dichiarato dagli stessi CAS, va dai Cocteau Twins a Morricone, fino ad arrivare ai Mazzy Star, riuscendo a trovare una voce personale.

X's

Viaggiando sempre su tonalità di bianco/grigio/nero, la voce androgina di Greg Gonzales sfuma il dolore e la malinconia raccontando in X’s un amore ormai finito. 
Il leader, tra l’altro, ha voluto registrare nello stesso appartamento in cui viveva con la sua ex, forse per terapia d’urto o magari per orchestrare le emozioni, assorbendo l’atmosfera delle stanze in cui quell’amore si è manifestato nel quotidiano, per poi affievolirsi.
C’è molto contrasto, perché il dramma è alleggerito dalle strutture melodiche. Per cui si riesce, ancora una volta, ad essere “megafono emozionale” che vibra nel cuore sognante/dolorante degli ascoltatori.
Per fare tutto questo, però, rimangono fin troppo fedeli a sé stessi. Gonzales ne è consapevole perché le sue canzoni, come ha dichiarato, non devono essere chissà quanto ricamate, basta il minimo e indispensabile per creare l’atmosfera giusta.
Certo, la tentazione di affermare che i brani sono tutti uguali sin dal primo disco è molto forte, ma cerchiamo di trovare qualche traccia di novità.

Innanzi tutto si ha l’impressione che, nel complesso, l’andamento slow-tempo abbia ceduto il passo al mid-tempo. 
Poi c’è l’interpretazione del cantante, che sicuramente non si discosta dal suo stile, ma nasconde una leggera tendenza a sussurrare con meno intensità.
Fondendo queste due considerazioni l’album suona più pop che dreamy, ma in realtà per il cantante “il disco sembra brutale”, sempre perché al centro di tutto c’è una separazione dolorosa da cui non riesce a prendere le distanze con indifferenza.
Ma per chi fatica a metabolizzare il contrasto tematiche/sonorità, si consiglia di ascoltare Hideway, diversa dal resto per giro di accordi, scenario simbolico e carica emotiva. Minimale, slow-tempo e vagamente dark, è l’intimo “nascondiglio” di due innamorati (“Now the sun’s out/ we’re feeling its sweet light/Waves are crashing/ they’re flying those long kites”), una coccola dolceamara da mettere in sottofondo stringendosi tra il cuscino e le lenzuola.
Anche Baby Blue Movie, nostalgica e dark-dreamy, rompe leggermente lo schema di composizione classico dei texani. Qui Gonzales riflette sull’importanza di riconoscere il valore dell’amore vissuto nel momento presente, distaccandosi dall’idealizzazione e dall’approccio da favola.

Tutto il resto, a livello musicale, rimane appunto molto fedele a quanto già ascoltato in Cigarettes After Sexed in Cry. Ed effettivamente è difficile allontanarsi da una formula sonora che funziona così bene. Si possono fare diverse ipotesi su “come avrebbe suonato quest’album se…” ma alla fine, ad oggi, Gonzales ha un disco in più con cui può superare le sue vicende amorose. Noi altri ci accontentiamo di un’altra manciata di canzoni ben fatte e che in un modo o nell’altro vanno in coda alla “playlist d’atmosfera” da tenere pronta in tutte le situazioni in tonalità bianco/grigio/nero.


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Love Changes Everything: La recensione dell’ottavo album dei Dirty Three

  • Love Changes Everything – Dirty Three
  • 28 giugno 2024
  • Drag City


Dopo 12 anni i Dirty Three hanno rilasciato Love changes everything, sei tracce che non tradiscono lo stile e la filosofia musicale del trio.
Chi segue Nick Cave, sa bene che negli ultimi trent’anni ha collaborato con il violinista e compositore Warren Ellis, colonna portante anche della band australiana, con cui padroneggia a proprio piacimento gli schemi del post rock, cambiando e rompendo le strutture con semplicità. 
La vocazione strumentale ha portato Ellis a firmare molte colonne sonore, alcune delle quali proprio con Nick Cave (come ad esempio per The Road, thriller fantascientifico con Viggo Mortensen), ricordando inoltre un altro duo collaudato che alterna il lavoro di band alle soundtrack per il cinema: Trent Reznor e Atticus Ross.

Per cui le coordinate strumentali hanno condotto Love changes everything (opera che dà il titolo a tutte le tracce) verso strade che in un modo o nell’altro sono state già percorse. 
Non si può di certo urlare al miracolo o fare un paragone con l’apice raggiunto con Ocean Songs.

Ciononostante ci sono spunti interessanti ed un filo conduttore che lascia un senso di sospensione in bilico tra creazione e annullamento, senza mai portare alla distruzione, ma trovando sempre un espediente risolutivo. Partendo da questa altalena emotiva, si è tentato di abbozzare a livello simbolico quanto metabolizzato dagli ascolti.

Love Changes Everything

Love changes everything I

Incipit con rumori industriali. È una jam in cui i tre strumentisti prendono le misure, tracciando un’ipotetica direzione. 
C’è una ricerca insistente del caos, dissimulata dai loop classicheggianti del violino. Poi la corsa di Jim White dietro le pelli, sporcata dalle distorsioni di Mick Turner. Chiusura improvvisa.

Love changes everything II

Pianoforte malinconico in primo piano, accenni di batteria, un tappeto di riverberi e violino distorto. Chiudendo gli occhi si ha davanti un caleidoscopio che stringe sui ricordi più cari e allarga sui pensieri disturbanti. Anche se l’immagine cambia, la band continua la seduta di ipnosi adattandosi ad ogni sfumatura dell’inconscio.

Love changes everything III

Prosegue sugli strascichi del secondo episodio, lasciando inizialmente il timone alla batteria.

Lo scenario potrebbe essere in un luogo qualsiasi, magari in un porto alle prime luci dell’alba, con i movimenti dei marinai che si annodano ai suoni delle altre navi prima della partenza. Il pianoforte partecipa a questo rito preparando la scena al violino e alla chitarra.  Prima di mollare gli ormeggi il pizzicato del violino anticipa il saluto in solitaria della chitarra. Così, la nave lascia il porto. 

Love changes everything IV

La chitarra rimane sulla scena, aprendo il quarto episodio e dialogando sin da subito con il violino.

Se è vero che “l’amore cambia ogni cosa”, probabilmente i Dirty Three avranno scavato in profondità lasciando la rumoristica alle spalle e ricercando emozioni difficili da sonorizzare.
Il brano riesce a toccare delle corde particolari e a fornire all’ascoltatore un’ancora a cui aggrapparsi durante le riflessioni amorose.

Love changes everything V

Una volta raccolti gli strumenti e lasciata la nave, si può immaginare un’altra scena, con Ellis e soci fermi al binario di una stazione vuota.

La jam session questa volta prepara l’arrivo di un treno fantasma, con chitarre psichedeliche e violini che si alternano per simulare il movimento e la velocità crescente. Dopo il passaggio ravvicinato, i tre continuano a guardare il treno e a diminuire l’intensità.

Love changes everything Vol. I

Lasciata la stazione, gli strumenti riprendono a suonare librandosi verso l’alto, affidando ancora una volta al pianoforte (e successivamente alla chitarra) il compito di armonizzare l’ambiente sonoro, trovando un compromesso con i fraseggi ipnotici del violino. La batteria, che in tutto l’album rincorre e si fa rincorrere, contribuisce a mantenere quel continuo senso di sospensione, che ora si trasforma in equilibrio, un momento dopo fa rimanere aggrappati ad un filo a strapiombo nel vuoto.


Love changes everything si candida a soundtrack sperimentale, una di quelle su cui poter costruire una fiaba moderna, una sceneggiatura o una storia d’amore… che può cambiare tutto.


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/ 5
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The Decemberists: La recensione di As It Ever Was, So It Will Be Again

  • As It Ever Was, So It Will Be Again – The Decemberist
  • 14 giugno 2024
  • Yabb Records

All’apertura del sipario, non si sa mai cosa aspettarsi dai personaggi messi in scena dai The Decemberists, menestrelli moderni che si affacciano all’estate con il nuovo As It Ever Was, So It Will Be Again.

Nel panorama musicale ci si può imbattere di tanto in tanto in progetti che hanno infinite sfumature e cambi di rotta spiazzanti. In tal senso può venire in mente la camaleontica produzione dei Motorpsycho o dei più recenti King Gizzard & The Lizard Wizard.

E la band di Meloy e soci fa appunto parte del club di chi scuote l’alternative-rock prendendolo dalle caviglie, cercando sempre di accostare elementi di novità ad episodi più classici. 

A sei anni di distanza dal più elettronico I’ll Be Your Girl si fa un passo indietro, lasciando in consolle la tentazione di provarci di nuovo, vestendo i primi due brani con sonorità di sostegno alla narrazione poetica.

Per cui si passeggia in un cimitero accompagnati dalle melodie pop di Burial Ground, mentre in Oh No! ci si ritrova a ballare ad un matrimonio, una danza balcanica in cui i demoni sono sempre in agguato.
Una volta scaldato il pubblico, arrivano le prime note di The Reapers per stravolgere l’atmosfera fintamente spensierata. I personaggi del racconto sono dei contadini immersi nella quotidianità, scandita dal lavoro e dal naturale corso degli eventi.

Girando pagina si torna a melodie più semplici e di appannaggio country. 
Long White Veil inizia come un qualsiasi pezzo dei Rem. Anzi, come Losing My Religion in una tonalità diversa, solo che qui si parla piuttosto di “losing my love”.
William Fitzwilliam aggiunge alla scaletta una ballad country in rime.

Al centro dell’opera troviamo due momenti importanti ed un altro cambio d’atmosfera.

Don’t Go to the Woods è un canto toccante e dalle tinte medievali, in cui la melodia tratteggia fedelmente l’ambientazione.

As It Ever Was So It Will Be Again

Chitarra acustica, doppie voci e fiati costruiscono la trama di Black Maria, una sorta di marcia dei vinti, di chi non ce l’ha fatta a cambiare vita e viene consegnato alla giustizia traghettato dal Black Maria. 

È in momenti come questi che l’accoppiata Meloy-Conlee (Jenny Conlee è in formazione dagli esordi) dà il meglio di sé intrecciando armoniosamente le voci.

Scorrendo in ordine ci si imbatte nell’amore ostinato di All I Want Is You, le cui parole sono rimaste nel notebook del songwriter per tanto tempo, per poi trovare spazio in quello che, ad oggi, è il lavoro più lungo della band di Portland.
In coda si può ascoltare qualcosa di più rockeggiante come Born To The Morning o dondolare al ritmo di America Made Me, appello alla madre patria concepito come una marcetta a metà tra le ritmiche pianistiche di Elton John e i fiati trionfanti di Sgt. Pepper’s.

Dopo i suoni sixties di Tell Me What’s On Your Mind, arriva Never Satisfied, delicata e minimale, una parentesi agrodolce per una rassegnata insoddisfazione di fondo. Poteva anche terminare così, lasciando in sospeso qualche interrogativo esistenziale ma portando a casa, in fin dei conti, una buona manciata di canzoni.

Ma la band affila le matite e disegna l’ultima traiettoria, Joan in the Garden, una suite di oltre 19 minuti in cui prende forma la figura di Giovanna D’arco. La novità non sta tanto nella proposta di un brano che, per sintetizzare, si può definire progressive, perché queste scelte compositive si erano già notate in passato (i più curiosi potrebbero ascoltare l’EP The Tain o The Hazards of Love). Piuttosto è la durata, che non aveva mai raggiunto questo minutaggio, la vera sorpresa. Il cantante ha usato l’espediente della vicenda di Giovanna D’arco per raccontare la sua visione della donna moderna. 
Parte come un classico brano dreamy-folk, per poi aumentare l’intensità drammatica aggiungendo sempre più strumenti, batteria, campane, distorsioni e chitarre in feedback, sfiorando l’epicità di pietre miliari come “Dogs” dei Pink Floyd
Al suo apice la suite si sgretola in un tappeto di rumoristica e psichedelia in cui i primi Porcupine Tree sarebbero stati a loro agio. Poi il risveglio finale, una cavalcata hard’n’heavy in cui i synth di Jenny Conlee dirigono la storia verso la conclusione, anzi verso il titolo, sottolineando che “come è sempre stato, così sarà di nuovo” (“As It Ever Was, So It Will Be Again”, appunto).

E al calar del sipario, una raccolta di nuove storie da portare a casa, o dentro le cuffie. E per capire a che punto sono i The Decemberist nella loro storia musicale, basta aprire le pagine dei loro capitoli per tracciare la linea che da menestrelli li ha condotti ad essere abili narratori.

/ 5
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Maya Hawke: La recensione di Chaos Angel

  • Chaos Angel – Maya Hawke
  • 31 maggio 2024
  • MOM + POP 

Saltando da un set all’altro, Maya Hawke ha ripreso in mano penna e microfono consegnando ai fan Chaos Angel, terza tappa discografica che allontana l’idea di una semplice parentesi musicale.
Figlia d’arte d’eccellenza, la venticinquenne è la primogenita dell’ex coppia Uma Thurman (Pulp Fiction)-Ethan Hawke (L’attimo fuggente). Per qualcuno sarà scontato, per altri invece va detto, o ricordato, che ha trovato il successo internazionale interpretando uno dei personaggi più amati di Stranger Things (Robin), serie che proprio alla musica attribuisce un’importanza centrale. E per chi non lo sapesse, alcuni membri del cast si sono dedicati a diversi progetti musicali negli ultimi anni: Finn Wolfhard (Calpurnia, The Aubreys), Joe Keery (Post Animal, Djo) e Charlie Heaton (batterista per un breve periodo) potrebbero, chissà, suonare al prossimo disco di Maya Hawke.

Fantasie a parte, l’attrice ha messo insieme dieci canzoni gradevoli di stampo folk-pop, sulla scia dei precedenti Blush (2020) e Moss (2022).
L’angelo del caos non porta disordine in queste storie, facendo emergere la bellezza e la semplicità delle cose nonostante tutto, anche dalla tristezza.
Le melodie semplici e orecchiabili rispecchiano la leggerezza e i toni pacati adagiandosi come piume sulla poetica di Hawke, che concede rari passaggi di spigolosità riflessiva e una maggiore attenzione a ricordi, ragionamenti per immagini e deduzioni per contrasto.

Chaos Angel


Ad aprire le danze in Chaos Angel c’è la compagna di avventure Sadie Sink (Max in Stranger Things), che interviene come voce narrante in Black Ice. Gran parte degli arrangiamenti recuperano gli insegnamenti del folk d’annata, mentre la voce sottile e leggera tende all’emulazione per apprezzamento della contemporanea Taylor Swift.
Un po’ di chitarre beatlesiane invece in Missing Out e Okay, il cui finale insiste su “If you’re okay, then I’m okay”, una parte che sembra uscita da un intermezzo musicale di  “Tutti dicono I love you” (Woody Allen).
Wrong Again, Big Idea e Promise scorrono lisce e senza pretese.
L’unico brano che passa il turno velocemente è Better, che consuma in poco più di un minuto il tentativo di mettere insieme voci elettroniche a cappella, abbozzando quella che potrebbe essere la sigla di una serie TV per ragazzi in stile Hannah Montana.

E sul podio delle prime tre arrivano (senza ordine):
Dark, struggente ma non troppo, un brano in cui ci si può riconoscere per qualche amore fallito, che nel complesso ha quel qualcosa in più, fosse solo per l’intervento della chitarra elettrica insieme alla batteria dopo un lungo inizio in sordina.
Hang In There, una ballad consolante che poteva far venire in mente all’attrice di chiedere un featuring a Glen Hansard;
Chaos Angel, il momento in cui Maya Hawke concentra le sue riflessioni simboliche per poi farle esplodere orchestrando una dichiarazione d’amore in crescendo.

Chaos Angel è un’opera delicata che si inserisce bene nel filone indie folk-pop da ascoltare in modo spensierato e senza impegno (almeno fino a questa prova discografica). Adatto per tutte le stagioni, da ascoltare davanti al fuoco, in riva al mare, sotto la pioggia o durante un pic-nic di primavera.


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/ 5
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Beth Gibbons: La recensione di Lives Outgrown

  • Lives Outgrown – Beth Gibbons 
  • 17 maggio 2024
  • Domino Records

Occhi chiusi e mani aggrappate al microfono: il resto è storia.

Beth Gibbons fa parte di quella categoria di artisti che non sbagliano un colpo, centrando come al solito il cerchio delle emozioni umane con la sua voce. Dopo aver contribuito con i Portishead a riscrivere la storia del trip-hop, Lives Outgrown è il suo primo vero disco solista. Solo nel 2002, infatti, sei anni prima del terzo ed ultimo disco di inediti della band di Bristol, aveva collaborato con Rustin Man (alias Paul Webb, ex Talk Talk), regalando ai fan quadretti jazz e bozzetti old-fashioned.

Se con i Portishead aveva ricamato trame retrò e romantiche, noir e drammatiche, ora torna sulla scena per sonorizzare una gran varietà di sensazioni universali. Lo fa per esigenza, per mettere nero su bianco le riflessioni sulla vita che cambia, cercando i suoni necessari, quelli che sintetizzano meglio la sua proposta artistica. Al suo fianco Bridget Samuels e Lee Harris, artefici di un suono ricercato, armonizzato dal rassicurante James Ford, che si è detto entusiasta del lavoro svolto per quest’album. È un’opera molto personale, in cui le fasi della vita vengono raccontate dalla voce andando oltre, interiorizzando ogni sentimento e sfumando situazioni e consapevolezze, nascite e perdite.

Lives Outgrown

Basterebbe ascoltare anche un solo episodio di questo capitolo monumentale per rendersi conto che Lives Outgrown è uno di quei dischi da portare su un’isola deserta per rimanere attaccati alla vita, per farsi cullare da gioie e dolori nello stesso modo, trovando conforto in una danza primordiale e psichedelica.

La nuova identità cinematica di Beth Gibbons, che ci aveva già abituati a vivere un’esperienza musicale per immagini, è rappresentata perfettamente da Floating On A Moment. Nel videoclip ufficiale il volto dell’artista non è mai percettibile, piuttosto fumoso, liquido, granulare. Le melodie vocali rievocano l’intensità degli esordi, firmando uno dei brani più commoventi. Atmosfere d’oltreoceano e percussioni ossessive caratterizzano brani come Tell Me Who You Are TodayFor Sale eBeyond the sun, dove ogni parola cantata si incastra a ritmi, orchestrazioni e strumenti improvvisati o poco noti.

In Burden Of Life questa sintesi sonora conferisce drammaticità e sospensione (“The burden of life… just won’t leave us alone”), mentre in Oceans c’è disillusione e stanchezza, ma infine un barlume di possibilità. Quel tuffo nell’oceano, dove andare a recuperare l’orgoglio e la lunghezza delle emozioni, fa pensare ad una versione speranzosa di How to disappear completely (Radiohead). Lost Changes rafforza il concept dell’opera (“Love changes, things change/ Is what changes things”) richiamando echi floydiani e da vecchio film.

Il culmine dell’ossessività tribale del viaggio autocurativo di Gibbons arriva con Rewind.
La conclusione strumentale accompagna la rassegnazione: “Too far to rewind”, non si può tornare indietro e si fatica ad andare avanti, intrappolati nella danza ipnotica, cercando risposte dal contatto con la terra. Canzoni del calibro di Reaching Out hanno una forza magnetica che ti spinge nello spazio sconfinato, dove tutto è inafferrabile, plasmabile e mai uguale: Gibbons ha messo a disposizione un video interattivo con cui è possibile avvicinarsi a quelle sensazioni.

Con Whispering Love si arriva alla fine, dichiarando il desiderio d’amore con una colonna sonora onirica, la meritata conclusione di un manifesto artistico concepito in dieci anni e da ascoltare (“vivere”) nei prossimi decenni.

4,5 / 5
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Sonic Universe: La recensione di “It Is What It Is”

  • It Is What It Is – Sonic Universe
  • 10 Maggio 2024
  • earMUSIC

Instancabile e pieno di energie, Corey Glover ha aggiunto un tassello discografico nel puzzle funky-metal con un progetto nuovo di zecca: Sonic Universe.

In attesa del prossimo dei Living Colour, storica band del cantante, It is what it is è la materializzazione di una combo micidiale con Mike Orlando, già chitarrista degli Adrenaline Mob (con Russen Allen dei Symphony X), Taykwuan Jackson alla batteria e Booker King al basso.

Chi si aspetta le grandi prestazioni vocali a cui ci ha abituati Glover da Cult of Personality in poi, non avrà delusioni. Per il resto, c’è da sottolineare la forte componente metal che gli ha permesso di comportarsi, come ha affermato, “più da cantante metal”. 

Come suona quindi It is what it is? Potente, su questo non c’è dubbio.

Con I Am si mettono subito in chiaro le cose: si va decisi, a sfondamento, facendo leva su funky, chitarre alla Tom Morello e batteria che va giù pesante ma che non dimentica il groove. Il tutto armonizzato dall’inconfondibile interpretazione del vocalist, ancora fresca, versatile e ruggente. 

It Is What It Is

Quello che fa riflettere è che da 1 a 10 (canzoni a disposizione), invertendo l’ordine degli ascolti, il risultato non cambia. In realtà neanche scorrendo con ordine.
Alla prima traccia si può accostare benissimo Turn A Blind Eye Life, tre canzoni diverse sulla carta ma molto simili per struttura.

In sostanza l’album gira più o meno sulle stesse scelte compositive. Variano ritmi, attacchi, note, virtuosismi, ma si ha spesso la sensazione di ritrovarsi al punto di partenza. 

Che sia inteso: i brani, presi singolarmente, sono bombe ad orologeria. Peccato che siano state sganciate tutte insieme, tralasciando l’ipotesi di dare più equilibrio o, per lo meno, di concedere un momento di stacco. In effetti uno c’è, Whisper To A Scream, un blues-metal che mette Glover nelle condizioni di sfoderare tutta la sua carica soul con un pathos da canto gospel. Tra i singoli va segnalata Higher, una ventata d’aria fresca, anzi, una raffica di vento che nel ritornello fa volare più in alto (“Higher, If you wanna fly, spread your wings and”). 

Immaginando di spacchettare l’album e di dividere a gruppi di due o tre le tracce di questo lavoro, aggiungendo a ogni gruppo una dose di canzoni più variegate, allora si potrebbe avere l’idea di una band che non ha fretta di mostrare le proprie abilità. 

Tornando alla realtà, si consiglia di ascoltare “a saltelli”, a meno che (e per gli amanti del genere potrebbe anche essere plausibile) non si voglia una bella carica di adrenalina tutta in una volta. Per il momento basti questo, è quello che è (appunto): It Is What It Is.


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/ 5
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Arab Strap: la recensione di “I’m totally fine with it – don’t give a fuck anymore”

  • Arab Strap – I’m totally fine with it – don’t give a fuck anymore
  • 10 Maggio 2024
  • Rock Action Records

Alienazione e cyber addiction sono i temi dominanti di I’m totally fine with it – don’t give a fuck anymore, ottavo capitolo discografico del duo scozzese che all’anagrafe musicale compare con il nome Arab Strap. Una volta consolidata la formula electro post-rock con una personale interpretazione lirica e sonora, Aidan Moffat e Malcolm Middleton avevano messo il progetto in stand by a metà degli anni ‘00, per poi tornare sulle scene nel 2021 con una maturità diversa. Dopo 16 anni è arrivato quindi As Days Get Dark, avviando “la fase 2” che oggi prosegue con dodici nuove tracce.

I'm totally fine with this

Partendo dal titolo (che al suo interno ha due emoticon), la band ha rivelato di aver scelto, senza un motivo preciso, un tormentone condiviso scherzosamente tra gli Arab Strap e i loro strumentisti.
Che sia stato per gioco oppure no, “Sono pienamente d’accordo – non mi importerà più niente” (traduzione sobria) è un titolo in cui chiunque può riconoscersi: guardare una foto o un video per pochi secondi sui social network, distrattamente o neanche per intero, dichiarando apprezzamenti sintetici sotto forma di pollici, cuori, ecc. La “rabbia tranquilla” viene sfoderata da Moffat e socio come un’arma per combattere la battaglia a nome dei nativi analogici (e non solo), diventati oggi “costretti digitali”.

È una collera che si insinua nei brani con forza ed è percepibile già con Allatonceness, le cui chitarre martellano insieme alla batteria scavalcando il muro del post-rock. Rimane la parentesi più aggressiva considerando che, come ha precisato Middleton, ci sono «meno chitarre che in qualunque altro nostro lavoro». Quando qui Moffat canta versi come “I want to suck on a stone”, rimbalza potente il disagio sociale e la voglia di recuperare la genuinità dietro a gesti, pensieri e momenti da vivere per ritrovare sì una connessione, ma con i sensi e l’ambiente circostante.

Per il resto, la rabbia espressa dai contenuti è miscelata con una buona dose di beat in Hide You Fires, BlissStrawberry Moon, dove i Depeche Mode incontrano i Radiohead periodo Kid A/Amnesiac, ma l’identità degli Arab Strap è ormai ben definita, per cui sono riferimenti solo indicativi.
Le tinte dream/dark-wave in You’re not there sfumano un paesaggio desolante in cui si ritrovano in solitudine le vittime del cyberbullismo.

Il dark folk di Safe & Well è il momento più minimale con cui il duo affronta la tematica della morte in solitudine (amplificata da una notizia letta durante la pandemia), mentre brani come Dreg Queen sterzano verso l’attitudine dark-tronica dei Puscifer.
L’andamento decadente della prima parte di Molehills è in pieno stile Arab Strap: note malinconiche e voce calma e profonda che alleggerisce (o aumenta, dipende dall’ascoltatore) uno stato d’animo sofferente. Poi un cambio alla Dave Gahan e il finale in crescendo preso in prestito dalla techno.

La connessione dentro la connessione termina con Turn Off The Light, che nel finale trionfa con un’energica apertura post rock da manuale sbriciolandosi negli ultimi secondi insieme a classici suoni di modem, già ascoltati all’inizio di Allatonceness.

Per ogni fenomeno sociale, l’arte è sempre stata uno dei mezzi con cui analizzare ed esprimere il cambiamento, per cui negli ultimi anni sono aumentate le opere musicali, letterarie e cinematografiche che trattano il tema del mondo virtuale, iperconnesso.
Ognuno a suo modo e con la propria sensibilità. Ad esempio Kim Gordon, con The Collective, lo ha fatto con uno sguardo distopico, gli Arab Strap con “rabbia tranquilla”, dimostrando di aver raggiunto una maturità anagrafica che ha giovato anche al processo creativo, confermandosi una delle band più coraggiose e originali del post-rock. 

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Iron & Wine: La recensione di “Light Verse”

  • Light Verse – Iron & Wine
  • 26 Aprile 2024
  • Sub Pop Records

Ci sono momenti in cui ritmi frenetici e preoccupazioni giornaliere prendono il sopravvento, ed è proprio in questi casi che la musica di Iron & Wine può far bene all’anima.
Ascoltando Light Verse dall’inizio alla fine si può cogliere la sensibilità del mondo dipinto dal cantautore, tra scenari rarefatti, affreschi quotidiani, riflessioni e parole che fluttuano nell’aria.

Dopo la semplicità degli esordi, Samuel Ervin Bean (alias Iron & Wine) arriva al suo settimo LP con la consapevolezza di aver sperimentato parecchio, arricchendo quel cantautorato minimale che l’ha fatto conoscere al grande pubblico con gli stili più disparati, dal jazz alla world music, dal country-blues al soul, ricercando anche sfumature etniche o talvolta più distorte. L’identità di Light Verse è merito della collaborazione con nuovi musicisti, tra cui il bassista Sebastian Steinberg ed il polistrumentista David Garza, che hanno caratterizzato i brani facendo emergere l’essenza di Bean in questo momento.

Le tracce del nuovo album non si discostano molto da quelle che il cantante ha sempre definito come “cinematic songs”, riuscendo a rendere simbolico ogni “verso leggero”. Infatti, a differenza del precedente Beast Epic, questo è un disco più spensierato, si percepisce una visione della vita più serena.
Le emozioni non vengono amplificate, ogni cosa ha il suo giusto peso, tutto scorre come deve. Per cui tutto appartiene a tutto, colori, immagini, sensazioni, suggestioni.

Light Verse

Gli esseri umani piangono, ridono, amano, baciano, sono in un mondo dove vale la pena vivere per attraversare ogni fase dell’esperienza umana. 
In Bag of Cats scrive che “You’ll never find a better place to die” (Non troverai mai un posto migliore dove morire), indipendentemente dalla lunghezza della vita.

L’alternarsi di scene semplici e naturali a versi poetici contraddistingue tutta l’opera. Ad esempio, in Taken by Surprise Beam accenna al ciclo naturale delle giornate (“Day turned into night and night to morning”), mentre in Tears that Don’t Matter suggerisce di mangiare un arcobaleno (“Fly right, eat a rainbow”).

Tra gli episodi più confortati va segnalata All in Good Time in duetto con Fiona Apple. Il resto scivola traccia dopo traccia senza intoppi, lasciando ad un’orchestra di 24 elementi il compito di accentuare il pathos di alcune canzoni. Tra queste c’è Yellow Jacket (che insieme ad altre rievoca la magia di Nick Drake) e la conclusiva Angels Go Home

In Tears that Don’t Matter le orchestrazioni sono dei personaggi aggiuntivi che prendono per mano un ipotetico protagonista immaginario per lasciarlo poi sospeso ad ammirare un paesaggio di emozioni che si alternano, accettando molteplici mondi interiori che convivono quando un essere umano perde se stesso per poi ritrovarsi. Mentre Beam nel finale canta “lost and found”, si ha una visione più completa della sensibilità cinematografica (oltre che poetica) che fa parte del processo creativo di ogni disco di Iron & Wine.
Non resta altro che ascoltare Light Verse per concedersi un momento di serenità, di riflessione o semplicemente di pura poesia in musica.

/ 5
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Pearl Jam: La recensione di “Dark Matter”

     

      • Dark Matter – Pearl Jam

      • 19 Aprile 2024

      • Monkeywrench Records/Republic Records

    “Il fatto di percepire di avere tempo a disposizione è un fattore determinante” ha dichiarato Eddie Vedder a proposito del presente e del futuro dei Pearl Jam, che con Dark Matter hanno fatto un percorso di rinnovamento e ritorno alle origini con il sostegno dell’ energico e versatile Andrew Watt.
     Il super fan, che durante le registrazioni ha indossato ogni giorno una maglia diversa della band, si è occupato negli ultimi anni di rivitalizzare e rinfrescare leggende del rock come Ozzy Osbourne, Iggy Pop e Rolling Stones.

    Già al lavoro con Vedder per Earthling, Watt compare anche nei credits per aver contribuito alle decisioni compositive. Raccogliendo le sue parole e quelle del quintetto di Seattle, l’immagine finale delle sessioni in studio è idealmente quella di un produttore che si cala nei panni del Jack Black di “School of Rock”, che fa di tutto per trasmettere l’energia del rock’n’roll ai suoi studenti. Ed è andata più o meno così, con Watt che incita Matt Cameron a picchiare sulla batteria oltre i limiti, rincorrendo un drumming alla Soundgarden.

    Pearl Jam - Dark Matter è un'occasione sprecata

    Il risultato è un album potente, che anche nei momenti più classici è arricchito dalle dinamiche di Cameron che “suona a squarciagola” ha sottolineato Vedder, aggiungendo che questo è “uno dei più grandi dischi di batteria” della band, consigliando di ascoltarlo “ad alto volume… molto alto”.
     In realtà il volume lo hanno alzato tutti, dando a questo dodicesimo lavoro un’identità condivisa tra tutti i membri, che da tempo non realizzavano un disco così “corale”, scegliendo insieme come dovesse suonare dall’inizio alla fine.

    Dopo un intro misterioso e sci-fi, Scared of Fear mette subito in chiaro che gli strumenti sono affilati e che la voce è all’altezza di un sound spinto. La successiva React, Respond ripropone la stessa forza, con un ritornello killer ma orecchiabile. Con Wreckage si torna al classic rock tipico dei Pearl Jam, abituati ad abbassare le distorsioni per creare narrazioni più sognanti e riflessive. Un brano che fa ricordare quanto anche i Foo Fighters (in questo caso viene in mente Wheels) abbiano sperimentato spesso formule classiche e orecchiabili alla Tom Petty.  L’intensità della voce nel bridge (“Holding on, holding out, holding you, holding on”) assolve il compito di accogliere la lotta contro l’oscurità.

    Dark Matter è un altro pezzo tiratissimo che soddisfa l’intento di Andrew Watt di far suonare i PJ come i Soundgarden o i Temple of the Dog. In sostanza la materia oscura è tutto ciò che, stando a quanto scrive Vedder, toglie il respiro o la luce dagli occhi, è l’intolleranza contro cui opporsi e in generale tutto ciò che di negativo circonda l’umanità. Le manopole del mixer orientano Won’t Tell verso il pop rock, con il finale che ricorda i The Cure più spensierati. 

     

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    Con Upper Hand invece si ha un assaggio di The Who ed U2 nell’intro, per poi aprire ad una semi ballad con chitarre hendrixiane, un ritorno alle sonorità di Ten.
     Sia Upper Hand che Waiting for Stevie sembrano arrangiate con un approccio live-oriented, tra assoli persistenti e un Matt Cameron da stadio soprattutto nei finali. Forse un po’ troppo per chi ascolta, per chi avrebbe voluto piuttosto una fuga psichedelica o nuove sperimentazioni. Nel secondo finale di Waiting for Stevie, però, c’è qualcosa di diverso, un frammento riverberato che potrebbe suonare bene in un nuovo capitolo solista del cantante.
    E poi c’è Running, poco più di due minuti di punk rock moderno dove nessuno dei componenti si risparmia, regalando ai fan l’ultima corsa frenetica del disco. In coda ci sono Something Special e Got to Give, che in uno degli ultimi album avrebbero figurato come riempitivi, ma qui la differenza la fa sempre la batteria, che arricchisce e spinge oltre la struttura da rock classico.

    La chiusura è affidata a Setting Sun, forse uno dei momenti più alti di Dark Matter. Qui tornano di nuovo in mente i Soundgarden e “Higher Truth”, l’ultima eredità solista lasciata da Chris Cornell. Poetica e intensa la conclusione (“We can become one last setting sun” / “Or be the sun at the break of dawn/ Let us not fade), una riflessione a cuore aperto e un “aggrapparsi” alla vita, per stare vicino alle persone importanti. Proprio recentemente il cantante ha dichiarato quanto sia strano non poter più godere della presenza di amici come Chris Cornell, e Setting Sun sembra una promessa per “chi non c’è più”, “ed è una cosa che ti spinge anche a rimanere in salute. Esserci per i tuoi figli. Fare buoni album. Noi potremmo averne in canna ancora uno o due”.
    Fino ad allora Dark Matter rimarrà uno dei lavori più riusciti in casa Pearl Jam, probabilmente tra i migliori degli ultimi diciotto anni.

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    Caleb Landry Jones: La recensione di “Hey Gary, Hey Dawn”

    • Hey Gary, Hey Dawn – Caleb Landry Jones
    • 5 Aprile 2024
    • Sacred Bones

    L’incontenibile creatività di Caleb Landry Jones ha portato alla realizzazione di Hey Gary, Hey Dawn, quarta prova in studio in cui i grandi spazi sonori da lungometraggio, tipici dei primi tre album, vengono ridotti a cortometraggi dove psichedelia e art-rock incontrano la robustezza del rock degli anni ‘90.
    Arrivato al successo con Dogman e Nitram (per quest’ultimo ha vinto il premio come miglior attore al festival di Cannes), l’artista ha un’energia interpretativa a metà tra Johnny Depp e Joaquin Phoenix e una forte passione per la musica, che ha nutrito con un songwriting che avrebbe trovato riscontro naturale negli anni Settanta. Rispetto ad altri colleghi del grande schermo, Jones ha imboccato la strada del rock’n’roll con meno freni. 
    In questo senso il suo percorso musicale è meno rassicurante del pop-rock stadium dei Thirty Seconds to Mars di Jared Leto, meno demenziale dei The Pizza Underground di Macaulay Culkin o meno celebrativo degli Hollywood Vampires di Johnny Depp.
    Gli album precedenti sono infatti un mix impazzito di psichedelia, cabaret e glam rock in cui, come dichiarato, ha cercato “quel big sound un po’ alla Beach Boys/Phil Spector ma mescolato con un atteggiamento punk”. Ascoltando i suoi brani si ha la sensazione di essere in un film visionario, tra Georges Méliès, Terry Gilliam e Michel Gondry, dove ogni diapositiva corrisponde ad un momento preciso partorito dall’immaginazione del musicista.

    Hey Gary, Hey Dawn


    Il disco esce a trent’anni esatti dalla scomparsa di Kurt Cobain e la coincidenza fa risaltare le somiglianze per sound e atteggiamento in alcune tracce di questo nuovo lavoro.
    Hey Dawn, che parte in sordina, sorprende nel ritornello con un omaggio (voluto?) al grunge e in particolare ai Nirvana. Finora soltanto The Great I Am (primo album) aveva ricordato quelle sonorità. 
    Lo stesso accade in The Moonkey LightHey Gary (periodo Bleach) e Useless.
    E visto che è facile farsi trasportare nella dimensione in bilico tra reale e surreale creata dall’attore, viene in mente quella leggenda metropolitana secondo la quale Jim Carrey è in realtà Andy Kaufman. Di certo non si può azzardare una fantasia del genere, presumendo che Caleb Landry Jones sia in realtà il compianto Kurt Cobain. Tra l’altro i due non sono neanche nati lo stesso giorno, mentre l’ipotesi stramba dello scambio Kaufman-Carrey “regge” proprio per questo. Quello che rimane da fare, quindi, quando si ascolta qualcosa che può far pensare ad un’icona come Cobain, è immaginare quale direzione musicale avrebbe intrapreso oggi il frontman dei Nirvana e sorriderci su.
    Diversamente, il resto è un impasto tra T. Rex (ha confessato di essere un fanatico della band di Marc Bolan), Iggy Pop e David Bowie, con rimandi più contenuti, questa volta, al mondo di Frank Zappa e Syd Barrett e vagamente alle sperimentazioni bizzarre di Tom Waits.
    Qualche accenno dei Pixies invece in The Bonzo Bargain e un po’ di Smashing Pumpkins in Spot A Fly
    L’atmosfera è più rilassata nelle note riflessive di Spiders In The Trees. Chissà se il verso “Are you just a reflection of another?” si riferisce alla difficoltà di uscire dai ruoli interpretati.
    In Masandoia c’è un andamento dai toni più mansueti. È una semi-ballad in stile Lou Reed che poteva terminare con gli archi in crescendo, ma si inasprisce nell’ultimo minuto con distorsioni e fiati, per poi sgonfiarsi nella chiusura.

    Ci sono due brani in particolare che sintetizzano la formula adottata sin dagli esordi.
    Your Favorite Song, con cambi di umore alla Mr. Bungle, intuizioni zappiane e beatlesiane e un generale accelera-frena-riparti.
    The Pageant Thieves, dannatamente glam e cinematografica, con tanto di presentatore, coretti da film d’animazione, risate e versi d’animali, un biglietto d’entrata al solito spettacolo inscenato dal cantante, che chiude il sipario lasciando “l’ultima parola” ad un gatto.


    Caleb Landry Jones è un artista che non riesce a trattenere l’urgenza creatività, che recupera “quelle voci nella testa” sfruttando ogni intuizione, come dei fotogrammi sonori che viaggiano nella mente. 
    Le sue canzoni hanno sempre una struttura da soundtrack da vecchio film, con variazioni più dure, psichedeliche, freak e sinfoniche, e un approccio che induce l’ascoltatore a non prenderlo troppo sul serio, come suggerisce il miagolio finale di The Pageant Thieves.
    In sostanza Hey Gary, Hey Dawn suona diverso, ma rimane intrappolato nella “scena”, magari consapevolmente. 
    Corre, rallenta, si trascina e corre di nuovo fino al rush finale, senza troppe pretese. In bianco e nero o a colori, muto o con il sonoro, non importa, farebbe sorridere lo stesso, senza inchinarsi necessariamente al genio. Probabilmente è l’ultima cosa che vorrebbe un tipo come Jones.

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