Simone Lecci

Max Richter: la recensione di In a Landscape

  • Max Richter – In a Landscape
  • 6 settembre
  • Decca Records

Il suono sta alla vita come Max Richter sta alle colonne sonore, e non solo. Dal 6 settembre è possibile ascoltare In A Landscape, la naturale evoluzione sonora del musicista, realizzato mettendo in pratica la formula applicata da molti artisti contemporanei: rispolverare il passato per tradurre in termini attuali concezioni universali e personali della vita. Richter è solito riservare un approccio minimale e sperimentale ai lavori da solista.
Per questo nono capitolo in studio ha deciso inoltre di immergersi totalmente in uno stato meditativo registrando per la prima volta nello Studio Richter Mahr, uno spazio minimalista ed ecosostenibile progettato con la coniuge e artista visiva Yulia Mahr.


Di conseguenza è riuscito ad avvicinarsi al suo celebre The Blue Notebooks, che al suo interno contiene On the Nature of Daylight, brano che fa parte delle soundtracks del film Shutter Island (è per contributi come questi che la sua musica ha fatto il giro del mondo grazie ad oltre 1 miliardo di ascolti in rete). A tal proposito, l’artista ha affermato che: “La musica di questo disco è una connessione o una riconciliazione tra opposti. È una dinamica che ho iniziato a esplorare nel 2004 con l’album ‘The Blue Notebooks’, con cui questo nuovo progetto condivide molte tematiche”.

In a landscape


E in quello studio personale ed intimo circondato da 12 ettari di foresta ha preso forma ‘In A Landscape’. Le strumentali del compositore tracciano una linea narrativa influenzata dalla lettura di libri a lui cari, in cui è possibile riconoscere alcune sfaccettature familiari a Brian Eno e Philip Glass.
La riconciliazione tra opposti è data dall’alternarsi bilanciato tra tracce suggestive e “Life Studies”, 9 bozzetti sperimentali che racchiudono registrazioni sul campo, suoni urbani e modulati.
È molto facile immedesimarsi e farsi assorbire dagli ambienti sonori di questi Studies, tra intermezzi della vita domestica e camminate misteriose nei boschi, in riva al mare (Life Study I) o nel caos urbano. I suoni naturali dialogano con quelli ossessivi e minimali del compositore ma si può rimbalzare anche su delay industriali ipnotici (Life Study IV).


L’immaginario di Max Richter prende forma traccia dopo traccia, offrendo agli ascoltatori “scene che possono sentire” o viceversa. Ognuno può sentire e immaginare ciò che vuole, pescando naturalmente dalle infinite combinazioni emozionali offerte dalla natura umana. A questo punto, in Life Studies V qualcuno potrebbe anche aprire una porta a strapiombo sull’ignoto, e meravigliarsi nel vedere una stanza galleggiante in mezzo al mare.
La suggestività invece dell’altra metà dell’album è data dall’esperienza maturata da  Richter, che cuce una ricca gamma di sensazioni su trame sonore in cui ognuno può riconoscere la proprio storia o il proprio personaggio.


L’ipnotica e riverberata Only Silent Words è un ottimo esempio di avanguardismo dell’epoca con gli occhi del presente, che sconfina nella già citata Life Studies V preparandole oggetti di scena, luci e suoni. Le restanti tracce sono in bilico tra classico e moderno, orchestrazioni e minimalismo.
È difficile rimanere indifferenti quando già dall’inizio si ha un picco emozionale in They Will Shade Us WIth Their Wings, che nel finale si consuma lentamente come un dolce imbrunire.
Romantiche e struggenti, malinconiche e drammatiche, trascinano nello stesso stato meditativo dell’autore, a volte con semplici note al pianoforte (Andante), altre volte orchestrando a dovere la scena (And Some Will Fall).
E se un brano come A Colour Field (Holocene) ha una progressione di accordi che ti fa immaginare un featuring con Thom Yorke, è con Movement, Before All Flowers che si ha la risoluzione di un processo emozionale complesso, che finalmente raggiunge toni più sereni ed ottimisti.

Tra i lavori più riusciti dell’artista, In a Landscape potrebbe essere anche un omaggio all’omonimo album di John Cage registrato nel 1948, ma per il momento possiamo considerarlo come un nuovo punto di svolta per una visione rinnovata delle sue tematiche tradotte in musica.

/ 5
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Mercury Rev: La recensione di Born Horses

  • Mercury Rev – Born Horses
  • 6 settembre 2024
  • ℗ Bella Union

Quando pensi alla neo psichedelia degli ultimi tre decenni non puoi di certo dimenticare i Mercury Rev, che dopo 9 anni sono tornati a far parlare di sé con Born Horses.
Carriera singolare la loro, che diversamente da molti rockers che si sono lanciati nel mondo delle colonne sonore dopo molto tempo (ricordiamo Trent Reznor e Atticus Ross oltreoceano, oppure i Verdena e Andrea Laszlo De Simone in Italia), sono partiti da sperimentazioni cinematografiche a basso costo, per poi diventare una band vera e propria alla fine degli anni ‘80.
C’è un nome importante dietro la loro nascita: Tony Conrad, uno dei maggiori esponenti del minimalismo, annusò le potenzialità della formazione, incoraggiandoli a debuttare come gruppo nel ricco panorama musicale. Dopo gli esordi più ruvidi e psichedelici, Jonathan Donahue e soci hanno toccato vette importanti con Deserter’s Song per poi consolidare la loro personale formula dream rock.
E oggi, parlando del loro nuovo disco, i Mercury Rev hanno citato proprio Tony Conrad tra le influenze. Ma non è tutto, perché hanno raccontato di simpatizzare per la dimensione eterea delle musiche di Blade Runner e di apprezzare lo stile poetico di Patti Smith. Inoltre è la prima volta che Donahue si abbandona al cantar parlato, facendo incontrare la narratività sonora tipica del grande schermo con la poesia.
E quella voce soffice ma incisiva arriva come due ali che si sfregano delicate, come il canto liberatorio di un uccello, eletto ad animale guida/voce interiore (“When I opened my voice to sing on this record, this was the bird that sang. It’s just the bird that wants to sing”).
Questi riferimenti al volo sono centrali nell’album, anche se il cantante si era concentrato sul tema già in altre occasioni (si consiglia l’ascolto di Funny Bird, una perla contenuta nel già citato Deserter’s Song).

born horses

A cosa si va incontro, quindi, se ci si imbatte nel nuovo lavoro dei Mercury Rev?
È appunto una colonna sonora in rime divisa in otto tracce e immersa nell’immaginario sognante e lucido che sembra proiettato in un futuro lontano, ma visto con lo sguardo del passato, come guardare Blade Runner, appunto, ma senza visione distopica. Inoltre Born Horses è caratterizzato da tocchi più jazzati rispetto al solito, rendendo omaggio a Chet Baker e Miles Davis, altri due grandi apprezzati dalla band di Buffalo. Si capisce subito, dalle prime note di Mood Swings, con Donahue che sussurra al microfono appoggiandosi ad un jazz fumoso e scivoloso. La tromba si perde tra i delay, come un incontro nel deserto tra gli Arab Strap e la versione rallentata e semplificata degli Ozric Tentacles, un brano che ispira tonalità viola/grigie.
Questi signori sono maestri delle sonorità dreamy. Nel dark-bossanova di You and I c’è un chiaro intervento di chitarra che puntualmente trascina giù l’ascoltatore, facendolo sprofondare nelle pieghe sognanti di un quadretto visionario.
Dove sono le ali? In Your Hammer, My Heart l’interpretazione del cantante pare suggerire all’uccello di spiccare il volo dopo le parole “my heart”, passaggio dopo il quale il brano raggiunge vette di epicità con l’aiuto di fiati, cori ed una scala discendente al pianoforte, come a dire che, se non fosse per la gravità, saremmo già lievitati per la potenza onirica liberata dagli strumenti.
Dopo le sfumature dream-pop ballad di Patterns arriva il brano “più cantato”, A Bird Of No Address, con un’altra analogia sul volo e l’evolversi finale su “fly on”.
Il passaggio più rappresentativo e identitario di questa nuova fase del gruppo lo troviamo con Born Horses, dove emerge la volontà di “fluttuare via dal presente” per recuperare la semplicità del passato (“I had a dream we were born horses/ And not human beings/ With more time to run/ And less time for things”).
Attenzione, perché l’energia sognante ormai è in circolo e viene sprigionata al massimo in Everything I Thought I Had Lost, raggiungendo l’apice dopo ogni “I keep finding again”, momento in cui si può immaginare l’uccello roteare a razzo verso l’alto, attraversando a gran velocità un fascio di luci e suoni (qui non c’è gravità che tenga). È l’unico episodio in cui sembra tornare un certo piglio post rock. 
 There’s Always Been a Bird In Me è la consacrazione finale colorata di new wave, la consapevolezza di aver avuto le ali da sempre (“There’s always been a bird in me”).

Bentornati Mercury Rev, in volo tra passato e futuro, in perenne sospensione, esplorando i confini tra sogno e realtà, vivendo nel mezzo sdraiati su morbide nuvole sonore.

4,0 / 5
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Un viaggio nella penombra di Cellophane Memories

  • Chrystabell & David Lynch – Cellophane Memories
  • 2 agosto 2024
  • ℗ Sacred Bones

“Chiunque, persino un deficiente, può prendere una canzone e ficcarla in un film. Per me la cosa si fa interessante quando il pezzo non se ne sta solamente lì appiccicato. Deve possedere degli ingredienti che siano davvero adatti a far parte della trama”.

Questa dichiarazione di David Lynch mette subito in chiaro cosa ha sempre fatto il maestro del noir durante la sua carriera. La musica non è quindi un elemento a sostegno o a supporto, ma è un personaggio fondamentale che partecipa alla storia. Non a caso il terzo capitolo di Twin Peaks (2017) ribadisce questa filosofia,  oltre a riproporre nelle scene molti musicisti, tra cui Eddie Vedder e i Nine Inch Nails (in passato anche David Bowie).
Forte di questa convinzione ancora oggi, l’artista ha rilasciato Cellophane Memories in collaborazione con la sua musa Chrystabell (anche lei nell’ultimo Twin Peaks).

Arrivati al terzo lavoro insieme, il duo ha consolidato gli esperimenti sonori di This Train e Somewhere in the Nowhere, firmando dieci tracce ispirate da una “passeggiata notturna attraverso una foresta di alberi alti”.

Cellophane Memories

Il regista è solito andare oltre il superficiale per immergersi nei meandri oscuri del visibile e dell’invisibile, cercando con tutte le forme artistiche che padroneggia (ricordiamo che, oltre ad essere regista, è sceneggiatore, attore, musicista e pittore) un barlume che dia senso alla battaglia tra luce e oscurità.
L’opera è uniforme, concettuale, suddivisa in formato canzone ma amalgamata da una trama sonora da soundtrack in cui la voce di Crystabell si scioglie calda e sensuale, riflettendosi nel panorama onirico raccontato dai sintetizzatori.
Sullo sfondo di questo panorama ci sono sempre una figura maschile ed una femminile, come si intuisce nel primo episodio. Ed è proprio in She Knew che il cantato sembra subito scivolare morbido sulle note.

Da questo momento in poi converrebbe ascoltare l’album senza nessuna distrazione, per entrare nell’immaginario proposto dai musicisti.
Le voci della cantante si rincorrono ma senza fretta, i suoni sono dilatati, così come lo spazio e il tempo. Il risultato è un’ambientazione in cui perdersi e, a tal proposito, Crystabell ha dichiarato di immaginarsi “molte porte lasciate aperte per meravigliarsi, vagare e sentirsi sconvolti”.
In So Much Love, ad esempio, ci si rispecchia alla perfezione con la visione di Lynch. I sussurri e le note incantate di Crystabell si annodano alle tastiere. È tutto così intenso che sembra di essere ovunque e da nessuna parte.
A livello compositivo si distingue leggermente The Answers To The Questions, che in realtà ricorda i passaggi blues-western del Lynch solista.

E se con With Small Animals si ha la sensazione di trovarsi all’interno dell’universo musicale di Blade Runner, in Reflections In A Blade c’è la descrizione in musica e parole di un incubo, un cortometraggio dell’inconscio riproposto in formato soundtrack.
Una carezza noir carica di paura e di sollievo al momento del risveglio.

Nel video di presentazione della ending track Sublime Eternal Love, il regista cerca di catturare la teatralità della cantante triplicando la sua immagine ed esaltando il suo magnetismo.
Che sia un sogno, un incubo, una visione crepuscolare o notturna, a 78 anni David Lynch dà prova in Cellophane Memories, ancora una volta, di riuscire a creare storie in cui ci si può immergere totalmente. Storie in cui perdersi e ritrovarsi, ascoltando il buio e cercando la luce, consolandosi nella penombra.


/ 5
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Meshell Ndegeocello: la recensione di No More Water: The Gospel Of James Baldwin

  • Meshell Ndegeocello – No More Water: The Gospel Of James Baldwin
  • 2 agosto 2024
  • ℗ Blue Note

Una nota introduttiva per i musicisti in cerca d’ispirazione e per chi va sempre a caccia di nuova musica: Meshell Ndegeocello rappresenta uno di quei casi in cui evoluzione graduale, sperimentazione costante e personalità sono in perfetta armonia, per cui vale davvero la pena approfondire la sua discografia.

Mossi i primi passi negli anni ‘90, ha esplorato diversi generi legati alla black music con una voce calda e vellutata, sfruttando il suo polistrumentismo e rimanendo affezionata al groove ritmico del basso. 

Trent’anni dopo l’alternative hip hop di Plantation Lullabies (1993), l’anno scorso ha pubblicato l’immenso The Omnichord Real Book (2023), vincendo il Grammy Award 2024 nella categoria Best Alternative Jazz Album. 
Dopo un traguardo così importante l’artista ha deciso di superarsi, ancora, componendo un manifesto universale più che un album.

No More Water: The Gospel Of James Baldwin è stato pubblicato in occasione del centenario dalla nascita di James Baldwin, scrittore, poeta e attivista politico, un simbolo della protesta afroamericana del suo tempo.
Ndegeocello aveva iniziato a lavorare a questo concept da un po’ di anni, ritrovandosi perfettamente in linea con l’ideologia e le parole dello scrittore che ha deciso di omaggiare.
Per farlo ha messo su una squadra ben collaudata, co-producendo insieme a Chris Bruce (chitarrista) e allineando la sua voce a quelle della coppia Justin Hicks-Kenita Miller Hicks. Altre preziose collaborazioni riguardano la poetessa Staceyann Chin e lo scrittore Hilton Als, che hanno recitato con passione molti testi estratti dalle pagine di Baldwin (metà delle lyrics presenti).

Meshell Ndegeocello

Ecco perché è un manifesto più che un album. Si può considerare infatti un concept poetry album, la cui musica è al servizio di un esperimento discografico che mette insieme letteratura, poesia, preghiera e protesta.
Chiaramente anche a livello sonoro la polistrumentista si è spinta oltre, dipingendo per i 17 episodi che compongono No More Water (ognuno dei quali meriterebbe un’analisi approfondita a sé) il quadro armonico perfetto, attingendo da una tavolozza di colori che va dall’ afro-beat all’alternative-jazz contemporaneo.
Potremmo definire il disco anche come un rituale gospel, questo ci aiuta ad individuare le coordinate di un percorso spirituale alla ricerca di valori universali. 

Nel particolare, invece, emerge risonante la lotta contro il razzismo, le differenze di genere, la violenza e il bigottismo, soprattutto nei versi recitati.
A caratterizzare i brani ci sono scelte compositive che pescano dall’avanguardia black and white degli ultimi sessant’anni. Solo per fare qualche esempio: ritmi afrobeat, tastiere alla Robert Wyatt/Brian Eno, sottofondi alla Miles Davis/Nina Simone, rimandi ai King Crimson di “Discipline”, echi radiohediani, alt-jazz, psichedelia e parentesi soul/pop sofisticate. Il tutto sotto la firma inconfondibile e personale della cantante, che oggi ha raggiunto una maturità tale da poter essere annoverata tra le voci più innovative e libere della black music.

Non a caso “Meshell Ndegeocello” (nome d’arte) significa “libero come un uccello”. 

È difficile scegliere o isolare i momenti migliori quando ci si trova davanti ad un’opera del genere. Ad ogni modo si può segnalare l’interpretazione da brividi in What Did I Do, così come l’ evocativa Eyes.
Guardando la recente esibizione al Tiny Desk, ad esempio, si possono ascoltare intrecci vocali travolgenti in Love e in Thus Sayeth The Lorde.
Come non apprezzare poi la capacità in Down At The Cross (traccia conclusiva) di creare una tensione drammatica coinvolgente per trattare uno dei tanti temi delicati del disco, il suicidio, che James Baldwin considerava come un’alternativa oggettiva alle persecuzioni dovute alla discriminazione razziale.

Per non parlare degli interventi poetici, a volte strutturati come monologhi, altre volte immaginati come protagonisti principali con sottofondo di tastiere ipnotiche o frammenti psichedelici. Si possono ascoltare anche come incipit all’evoluzione di un brano. 

In sostanza, ogni parola vibra e risuona potente grazie alla performance poetica, mentre ogni nota sonorizza puntuale tutti i sentimenti che si volevano trasmettere. 

No More Water è complesso ma immediato, eclettico ed universale, un testamento musicale e concettuale, probabilmente tra i più riusciti di tutto decennio. 


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/ 5
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Cigarettes After Sex: La recensione di “X’s”

  • Cigarettes After Sex – X’s
  • 12 Luglio
  • Partisan Records

Come suona la sensualità? 
Potremmo chiedere ai Cigarettes After Sex, autori di un dream pop minimale che negli ultimi dieci anni ha fatto sognare milioni di persone.
Anche se la musica cambia velocemente, la band texana non si scompone e rilascia X’s, riproponendo in dieci brani la formula sonora con cui hanno conquistato la fama mondiale prima sul web, poi sui palchi, trasudando sensualità e impulsi passionali contagiosi.
Il mix di influenze musicali, come dichiarato dagli stessi CAS, va dai Cocteau Twins a Morricone, fino ad arrivare ai Mazzy Star, riuscendo a trovare una voce personale.

X's

Viaggiando sempre su tonalità di bianco/grigio/nero, la voce androgina di Greg Gonzales sfuma il dolore e la malinconia raccontando in X’s un amore ormai finito. 
Il leader, tra l’altro, ha voluto registrare nello stesso appartamento in cui viveva con la sua ex, forse per terapia d’urto o magari per orchestrare le emozioni, assorbendo l’atmosfera delle stanze in cui quell’amore si è manifestato nel quotidiano, per poi affievolirsi.
C’è molto contrasto, perché il dramma è alleggerito dalle strutture melodiche. Per cui si riesce, ancora una volta, ad essere “megafono emozionale” che vibra nel cuore sognante/dolorante degli ascoltatori.
Per fare tutto questo, però, rimangono fin troppo fedeli a sé stessi. Gonzales ne è consapevole perché le sue canzoni, come ha dichiarato, non devono essere chissà quanto ricamate, basta il minimo e indispensabile per creare l’atmosfera giusta.
Certo, la tentazione di affermare che i brani sono tutti uguali sin dal primo disco è molto forte, ma cerchiamo di trovare qualche traccia di novità.

Innanzi tutto si ha l’impressione che, nel complesso, l’andamento slow-tempo abbia ceduto il passo al mid-tempo. 
Poi c’è l’interpretazione del cantante, che sicuramente non si discosta dal suo stile, ma nasconde una leggera tendenza a sussurrare con meno intensità.
Fondendo queste due considerazioni l’album suona più pop che dreamy, ma in realtà per il cantante “il disco sembra brutale”, sempre perché al centro di tutto c’è una separazione dolorosa da cui non riesce a prendere le distanze con indifferenza.
Ma per chi fatica a metabolizzare il contrasto tematiche/sonorità, si consiglia di ascoltare Hideway, diversa dal resto per giro di accordi, scenario simbolico e carica emotiva. Minimale, slow-tempo e vagamente dark, è l’intimo “nascondiglio” di due innamorati (“Now the sun’s out/ we’re feeling its sweet light/Waves are crashing/ they’re flying those long kites”), una coccola dolceamara da mettere in sottofondo stringendosi tra il cuscino e le lenzuola.
Anche Baby Blue Movie, nostalgica e dark-dreamy, rompe leggermente lo schema di composizione classico dei texani. Qui Gonzales riflette sull’importanza di riconoscere il valore dell’amore vissuto nel momento presente, distaccandosi dall’idealizzazione e dall’approccio da favola.

Tutto il resto, a livello musicale, rimane appunto molto fedele a quanto già ascoltato in Cigarettes After Sexed in Cry. Ed effettivamente è difficile allontanarsi da una formula sonora che funziona così bene. Si possono fare diverse ipotesi su “come avrebbe suonato quest’album se…” ma alla fine, ad oggi, Gonzales ha un disco in più con cui può superare le sue vicende amorose. Noi altri ci accontentiamo di un’altra manciata di canzoni ben fatte e che in un modo o nell’altro vanno in coda alla “playlist d’atmosfera” da tenere pronta in tutte le situazioni in tonalità bianco/grigio/nero.


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/ 5
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Love Changes Everything: La recensione dell’ottavo album dei Dirty Three

  • Love Changes Everything – Dirty Three
  • 28 giugno 2024
  • Drag City


Dopo 12 anni i Dirty Three hanno rilasciato Love changes everything, sei tracce che non tradiscono lo stile e la filosofia musicale del trio.
Chi segue Nick Cave, sa bene che negli ultimi trent’anni ha collaborato con il violinista e compositore Warren Ellis, colonna portante anche della band australiana, con cui padroneggia a proprio piacimento gli schemi del post rock, cambiando e rompendo le strutture con semplicità. 
La vocazione strumentale ha portato Ellis a firmare molte colonne sonore, alcune delle quali proprio con Nick Cave (come ad esempio per The Road, thriller fantascientifico con Viggo Mortensen), ricordando inoltre un altro duo collaudato che alterna il lavoro di band alle soundtrack per il cinema: Trent Reznor e Atticus Ross.

Per cui le coordinate strumentali hanno condotto Love changes everything (opera che dà il titolo a tutte le tracce) verso strade che in un modo o nell’altro sono state già percorse. 
Non si può di certo urlare al miracolo o fare un paragone con l’apice raggiunto con Ocean Songs.

Ciononostante ci sono spunti interessanti ed un filo conduttore che lascia un senso di sospensione in bilico tra creazione e annullamento, senza mai portare alla distruzione, ma trovando sempre un espediente risolutivo. Partendo da questa altalena emotiva, si è tentato di abbozzare a livello simbolico quanto metabolizzato dagli ascolti.

Love Changes Everything

Love changes everything I

Incipit con rumori industriali. È una jam in cui i tre strumentisti prendono le misure, tracciando un’ipotetica direzione. 
C’è una ricerca insistente del caos, dissimulata dai loop classicheggianti del violino. Poi la corsa di Jim White dietro le pelli, sporcata dalle distorsioni di Mick Turner. Chiusura improvvisa.

Love changes everything II

Pianoforte malinconico in primo piano, accenni di batteria, un tappeto di riverberi e violino distorto. Chiudendo gli occhi si ha davanti un caleidoscopio che stringe sui ricordi più cari e allarga sui pensieri disturbanti. Anche se l’immagine cambia, la band continua la seduta di ipnosi adattandosi ad ogni sfumatura dell’inconscio.

Love changes everything III

Prosegue sugli strascichi del secondo episodio, lasciando inizialmente il timone alla batteria.

Lo scenario potrebbe essere in un luogo qualsiasi, magari in un porto alle prime luci dell’alba, con i movimenti dei marinai che si annodano ai suoni delle altre navi prima della partenza. Il pianoforte partecipa a questo rito preparando la scena al violino e alla chitarra.  Prima di mollare gli ormeggi il pizzicato del violino anticipa il saluto in solitaria della chitarra. Così, la nave lascia il porto. 

Love changes everything IV

La chitarra rimane sulla scena, aprendo il quarto episodio e dialogando sin da subito con il violino.

Se è vero che “l’amore cambia ogni cosa”, probabilmente i Dirty Three avranno scavato in profondità lasciando la rumoristica alle spalle e ricercando emozioni difficili da sonorizzare.
Il brano riesce a toccare delle corde particolari e a fornire all’ascoltatore un’ancora a cui aggrapparsi durante le riflessioni amorose.

Love changes everything V

Una volta raccolti gli strumenti e lasciata la nave, si può immaginare un’altra scena, con Ellis e soci fermi al binario di una stazione vuota.

La jam session questa volta prepara l’arrivo di un treno fantasma, con chitarre psichedeliche e violini che si alternano per simulare il movimento e la velocità crescente. Dopo il passaggio ravvicinato, i tre continuano a guardare il treno e a diminuire l’intensità.

Love changes everything Vol. I

Lasciata la stazione, gli strumenti riprendono a suonare librandosi verso l’alto, affidando ancora una volta al pianoforte (e successivamente alla chitarra) il compito di armonizzare l’ambiente sonoro, trovando un compromesso con i fraseggi ipnotici del violino. La batteria, che in tutto l’album rincorre e si fa rincorrere, contribuisce a mantenere quel continuo senso di sospensione, che ora si trasforma in equilibrio, un momento dopo fa rimanere aggrappati ad un filo a strapiombo nel vuoto.


Love changes everything si candida a soundtrack sperimentale, una di quelle su cui poter costruire una fiaba moderna, una sceneggiatura o una storia d’amore… che può cambiare tutto.


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/ 5
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The Decemberists: La recensione di As It Ever Was, So It Will Be Again

  • As It Ever Was, So It Will Be Again – The Decemberist
  • 14 giugno 2024
  • Yabb Records

All’apertura del sipario, non si sa mai cosa aspettarsi dai personaggi messi in scena dai The Decemberists, menestrelli moderni che si affacciano all’estate con il nuovo As It Ever Was, So It Will Be Again.

Nel panorama musicale ci si può imbattere di tanto in tanto in progetti che hanno infinite sfumature e cambi di rotta spiazzanti. In tal senso può venire in mente la camaleontica produzione dei Motorpsycho o dei più recenti King Gizzard & The Lizard Wizard.

E la band di Meloy e soci fa appunto parte del club di chi scuote l’alternative-rock prendendolo dalle caviglie, cercando sempre di accostare elementi di novità ad episodi più classici. 

A sei anni di distanza dal più elettronico I’ll Be Your Girl si fa un passo indietro, lasciando in consolle la tentazione di provarci di nuovo, vestendo i primi due brani con sonorità di sostegno alla narrazione poetica.

Per cui si passeggia in un cimitero accompagnati dalle melodie pop di Burial Ground, mentre in Oh No! ci si ritrova a ballare ad un matrimonio, una danza balcanica in cui i demoni sono sempre in agguato.
Una volta scaldato il pubblico, arrivano le prime note di The Reapers per stravolgere l’atmosfera fintamente spensierata. I personaggi del racconto sono dei contadini immersi nella quotidianità, scandita dal lavoro e dal naturale corso degli eventi.

Girando pagina si torna a melodie più semplici e di appannaggio country. 
Long White Veil inizia come un qualsiasi pezzo dei Rem. Anzi, come Losing My Religion in una tonalità diversa, solo che qui si parla piuttosto di “losing my love”.
William Fitzwilliam aggiunge alla scaletta una ballad country in rime.

Al centro dell’opera troviamo due momenti importanti ed un altro cambio d’atmosfera.

Don’t Go to the Woods è un canto toccante e dalle tinte medievali, in cui la melodia tratteggia fedelmente l’ambientazione.

As It Ever Was So It Will Be Again

Chitarra acustica, doppie voci e fiati costruiscono la trama di Black Maria, una sorta di marcia dei vinti, di chi non ce l’ha fatta a cambiare vita e viene consegnato alla giustizia traghettato dal Black Maria. 

È in momenti come questi che l’accoppiata Meloy-Conlee (Jenny Conlee è in formazione dagli esordi) dà il meglio di sé intrecciando armoniosamente le voci.

Scorrendo in ordine ci si imbatte nell’amore ostinato di All I Want Is You, le cui parole sono rimaste nel notebook del songwriter per tanto tempo, per poi trovare spazio in quello che, ad oggi, è il lavoro più lungo della band di Portland.
In coda si può ascoltare qualcosa di più rockeggiante come Born To The Morning o dondolare al ritmo di America Made Me, appello alla madre patria concepito come una marcetta a metà tra le ritmiche pianistiche di Elton John e i fiati trionfanti di Sgt. Pepper’s.

Dopo i suoni sixties di Tell Me What’s On Your Mind, arriva Never Satisfied, delicata e minimale, una parentesi agrodolce per una rassegnata insoddisfazione di fondo. Poteva anche terminare così, lasciando in sospeso qualche interrogativo esistenziale ma portando a casa, in fin dei conti, una buona manciata di canzoni.

Ma la band affila le matite e disegna l’ultima traiettoria, Joan in the Garden, una suite di oltre 19 minuti in cui prende forma la figura di Giovanna D’arco. La novità non sta tanto nella proposta di un brano che, per sintetizzare, si può definire progressive, perché queste scelte compositive si erano già notate in passato (i più curiosi potrebbero ascoltare l’EP The Tain o The Hazards of Love). Piuttosto è la durata, che non aveva mai raggiunto questo minutaggio, la vera sorpresa. Il cantante ha usato l’espediente della vicenda di Giovanna D’arco per raccontare la sua visione della donna moderna. 
Parte come un classico brano dreamy-folk, per poi aumentare l’intensità drammatica aggiungendo sempre più strumenti, batteria, campane, distorsioni e chitarre in feedback, sfiorando l’epicità di pietre miliari come “Dogs” dei Pink Floyd
Al suo apice la suite si sgretola in un tappeto di rumoristica e psichedelia in cui i primi Porcupine Tree sarebbero stati a loro agio. Poi il risveglio finale, una cavalcata hard’n’heavy in cui i synth di Jenny Conlee dirigono la storia verso la conclusione, anzi verso il titolo, sottolineando che “come è sempre stato, così sarà di nuovo” (“As It Ever Was, So It Will Be Again”, appunto).

E al calar del sipario, una raccolta di nuove storie da portare a casa, o dentro le cuffie. E per capire a che punto sono i The Decemberist nella loro storia musicale, basta aprire le pagine dei loro capitoli per tracciare la linea che da menestrelli li ha condotti ad essere abili narratori.

1,0 / 5
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Maya Hawke: La recensione di Chaos Angel

  • Chaos Angel – Maya Hawke
  • 31 maggio 2024
  • MOM + POP 

Saltando da un set all’altro, Maya Hawke ha ripreso in mano penna e microfono consegnando ai fan Chaos Angel, terza tappa discografica che allontana l’idea di una semplice parentesi musicale.
Figlia d’arte d’eccellenza, la venticinquenne è la primogenita dell’ex coppia Uma Thurman (Pulp Fiction)-Ethan Hawke (L’attimo fuggente). Per qualcuno sarà scontato, per altri invece va detto, o ricordato, che ha trovato il successo internazionale interpretando uno dei personaggi più amati di Stranger Things (Robin), serie che proprio alla musica attribuisce un’importanza centrale. E per chi non lo sapesse, alcuni membri del cast si sono dedicati a diversi progetti musicali negli ultimi anni: Finn Wolfhard (Calpurnia, The Aubreys), Joe Keery (Post Animal, Djo) e Charlie Heaton (batterista per un breve periodo) potrebbero, chissà, suonare al prossimo disco di Maya Hawke.

Fantasie a parte, l’attrice ha messo insieme dieci canzoni gradevoli di stampo folk-pop, sulla scia dei precedenti Blush (2020) e Moss (2022).
L’angelo del caos non porta disordine in queste storie, facendo emergere la bellezza e la semplicità delle cose nonostante tutto, anche dalla tristezza.
Le melodie semplici e orecchiabili rispecchiano la leggerezza e i toni pacati adagiandosi come piume sulla poetica di Hawke, che concede rari passaggi di spigolosità riflessiva e una maggiore attenzione a ricordi, ragionamenti per immagini e deduzioni per contrasto.

Chaos Angel


Ad aprire le danze in Chaos Angel c’è la compagna di avventure Sadie Sink (Max in Stranger Things), che interviene come voce narrante in Black Ice. Gran parte degli arrangiamenti recuperano gli insegnamenti del folk d’annata, mentre la voce sottile e leggera tende all’emulazione per apprezzamento della contemporanea Taylor Swift.
Un po’ di chitarre beatlesiane invece in Missing Out e Okay, il cui finale insiste su “If you’re okay, then I’m okay”, una parte che sembra uscita da un intermezzo musicale di  “Tutti dicono I love you” (Woody Allen).
Wrong Again, Big Idea e Promise scorrono lisce e senza pretese.
L’unico brano che passa il turno velocemente è Better, che consuma in poco più di un minuto il tentativo di mettere insieme voci elettroniche a cappella, abbozzando quella che potrebbe essere la sigla di una serie TV per ragazzi in stile Hannah Montana.

E sul podio delle prime tre arrivano (senza ordine):
Dark, struggente ma non troppo, un brano in cui ci si può riconoscere per qualche amore fallito, che nel complesso ha quel qualcosa in più, fosse solo per l’intervento della chitarra elettrica insieme alla batteria dopo un lungo inizio in sordina.
Hang In There, una ballad consolante che poteva far venire in mente all’attrice di chiedere un featuring a Glen Hansard;
Chaos Angel, il momento in cui Maya Hawke concentra le sue riflessioni simboliche per poi farle esplodere orchestrando una dichiarazione d’amore in crescendo.

Chaos Angel è un’opera delicata che si inserisce bene nel filone indie folk-pop da ascoltare in modo spensierato e senza impegno (almeno fino a questa prova discografica). Adatto per tutte le stagioni, da ascoltare davanti al fuoco, in riva al mare, sotto la pioggia o durante un pic-nic di primavera.


Se ti piace Maya Hawke, potresti trovare interessante: Boygenius, Mitski

/ 5
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Beth Gibbons: La recensione di Lives Outgrown

  • Lives Outgrown – Beth Gibbons 
  • 17 maggio 2024
  • Domino Records

Occhi chiusi e mani aggrappate al microfono: il resto è storia.

Beth Gibbons fa parte di quella categoria di artisti che non sbagliano un colpo, centrando come al solito il cerchio delle emozioni umane con la sua voce. Dopo aver contribuito con i Portishead a riscrivere la storia del trip-hop, Lives Outgrown è il suo primo vero disco solista. Solo nel 2002, infatti, sei anni prima del terzo ed ultimo disco di inediti della band di Bristol, aveva collaborato con Rustin Man (alias Paul Webb, ex Talk Talk), regalando ai fan quadretti jazz e bozzetti old-fashioned.

Se con i Portishead aveva ricamato trame retrò e romantiche, noir e drammatiche, ora torna sulla scena per sonorizzare una gran varietà di sensazioni universali. Lo fa per esigenza, per mettere nero su bianco le riflessioni sulla vita che cambia, cercando i suoni necessari, quelli che sintetizzano meglio la sua proposta artistica. Al suo fianco Bridget Samuels e Lee Harris, artefici di un suono ricercato, armonizzato dal rassicurante James Ford, che si è detto entusiasta del lavoro svolto per quest’album. È un’opera molto personale, in cui le fasi della vita vengono raccontate dalla voce andando oltre, interiorizzando ogni sentimento e sfumando situazioni e consapevolezze, nascite e perdite.

Lives Outgrown

Basterebbe ascoltare anche un solo episodio di questo capitolo monumentale per rendersi conto che Lives Outgrown è uno di quei dischi da portare su un’isola deserta per rimanere attaccati alla vita, per farsi cullare da gioie e dolori nello stesso modo, trovando conforto in una danza primordiale e psichedelica.

La nuova identità cinematica di Beth Gibbons, che ci aveva già abituati a vivere un’esperienza musicale per immagini, è rappresentata perfettamente da Floating On A Moment. Nel videoclip ufficiale il volto dell’artista non è mai percettibile, piuttosto fumoso, liquido, granulare. Le melodie vocali rievocano l’intensità degli esordi, firmando uno dei brani più commoventi. Atmosfere d’oltreoceano e percussioni ossessive caratterizzano brani come Tell Me Who You Are TodayFor Sale eBeyond the sun, dove ogni parola cantata si incastra a ritmi, orchestrazioni e strumenti improvvisati o poco noti.

In Burden Of Life questa sintesi sonora conferisce drammaticità e sospensione (“The burden of life… just won’t leave us alone”), mentre in Oceans c’è disillusione e stanchezza, ma infine un barlume di possibilità. Quel tuffo nell’oceano, dove andare a recuperare l’orgoglio e la lunghezza delle emozioni, fa pensare ad una versione speranzosa di How to disappear completely (Radiohead). Lost Changes rafforza il concept dell’opera (“Love changes, things change/ Is what changes things”) richiamando echi floydiani e da vecchio film.

Il culmine dell’ossessività tribale del viaggio autocurativo di Gibbons arriva con Rewind.
La conclusione strumentale accompagna la rassegnazione: “Too far to rewind”, non si può tornare indietro e si fatica ad andare avanti, intrappolati nella danza ipnotica, cercando risposte dal contatto con la terra. Canzoni del calibro di Reaching Out hanno una forza magnetica che ti spinge nello spazio sconfinato, dove tutto è inafferrabile, plasmabile e mai uguale: Gibbons ha messo a disposizione un video interattivo con cui è possibile avvicinarsi a quelle sensazioni.

Con Whispering Love si arriva alla fine, dichiarando il desiderio d’amore con una colonna sonora onirica, la meritata conclusione di un manifesto artistico concepito in dieci anni e da ascoltare (“vivere”) nei prossimi decenni.

4,5 / 5
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Sonic Universe: La recensione di “It Is What It Is”

  • It Is What It Is – Sonic Universe
  • 10 Maggio 2024
  • earMUSIC

Instancabile e pieno di energie, Corey Glover ha aggiunto un tassello discografico nel puzzle funky-metal con un progetto nuovo di zecca: Sonic Universe.

In attesa del prossimo dei Living Colour, storica band del cantante, It is what it is è la materializzazione di una combo micidiale con Mike Orlando, già chitarrista degli Adrenaline Mob (con Russen Allen dei Symphony X), Taykwuan Jackson alla batteria e Booker King al basso.

Chi si aspetta le grandi prestazioni vocali a cui ci ha abituati Glover da Cult of Personality in poi, non avrà delusioni. Per il resto, c’è da sottolineare la forte componente metal che gli ha permesso di comportarsi, come ha affermato, “più da cantante metal”. 

Come suona quindi It is what it is? Potente, su questo non c’è dubbio.

Con I Am si mettono subito in chiaro le cose: si va decisi, a sfondamento, facendo leva su funky, chitarre alla Tom Morello e batteria che va giù pesante ma che non dimentica il groove. Il tutto armonizzato dall’inconfondibile interpretazione del vocalist, ancora fresca, versatile e ruggente. 

It Is What It Is

Quello che fa riflettere è che da 1 a 10 (canzoni a disposizione), invertendo l’ordine degli ascolti, il risultato non cambia. In realtà neanche scorrendo con ordine.
Alla prima traccia si può accostare benissimo Turn A Blind Eye Life, tre canzoni diverse sulla carta ma molto simili per struttura.

In sostanza l’album gira più o meno sulle stesse scelte compositive. Variano ritmi, attacchi, note, virtuosismi, ma si ha spesso la sensazione di ritrovarsi al punto di partenza. 

Che sia inteso: i brani, presi singolarmente, sono bombe ad orologeria. Peccato che siano state sganciate tutte insieme, tralasciando l’ipotesi di dare più equilibrio o, per lo meno, di concedere un momento di stacco. In effetti uno c’è, Whisper To A Scream, un blues-metal che mette Glover nelle condizioni di sfoderare tutta la sua carica soul con un pathos da canto gospel. Tra i singoli va segnalata Higher, una ventata d’aria fresca, anzi, una raffica di vento che nel ritornello fa volare più in alto (“Higher, If you wanna fly, spread your wings and”). 

Immaginando di spacchettare l’album e di dividere a gruppi di due o tre le tracce di questo lavoro, aggiungendo a ogni gruppo una dose di canzoni più variegate, allora si potrebbe avere l’idea di una band che non ha fretta di mostrare le proprie abilità. 

Tornando alla realtà, si consiglia di ascoltare “a saltelli”, a meno che (e per gli amanti del genere potrebbe anche essere plausibile) non si voglia una bella carica di adrenalina tutta in una volta. Per il momento basti questo, è quello che è (appunto): It Is What It Is.


Se ti sono piaciuti i Sonic Universe, puoi provare: Queens of the Stone Age, Screaming Females

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