Indie

Suki Waterhouse: la recensione di Memoir of a Sparklemuffin

  • Suki Waterhouse – Memoir of a Sparklemuffin
  • 13 settembre 2024
  • ℗ Sub Pop Records

Una specie di ragno variopinto inserito nel titolo di un disco? Può sembrare una scelta azzardata, ma è l’ultima trovata musicale di Suki Waterhouse. La cantante e modella inglese, infatti, è appena tornata sulla scena con il suo secondo album Memoir of a Sparklemuffin, un vero e proprio caleidoscopio di immagini, ricordi e racconti della sua vita.

Il disco, diviso in 18 brani, si apre con Gateway Drug, una traccia estremamente onirica in cui l’arpeggio di chitarra va a miscelarsi perfettamente con la voce dolce della cantante; interessante la bipartizione del brano che, a metà, esplode in una forte batteria: la voce si fa più dura e viene accompagnata da voci corali che amplificano le immagini oniriche. My fun è, invece, un brano diverso dagli altri, che mostra un’altra sfaccettatura dell’artista: inizialmente più funky, poi quasi jazz grazie all’inserimento di un pianoforte a metà brano, il brano racconta della relazione della cantante con Robert Pattinson; emblematica la frase ‘Who loves me like a love my phone?’.

Il brano seguente è Modell, Actress, Whatever; Suki affronta il concetto della polivalenza dell’essere umano, qui si palesa lo ‘Sparklemuffin’, vengono a galla le mille sfaccettature che possono esistere della stessa anima. Non ci si deve limitare a scegliere, si può essere ciò che si desidera sul palcoscenico della vita.

memoir of a sparkle muffin

Proseguendo con l’ascolto, To get you è forse una delle canzoni più intime: scritta a quattro mani con Greg Golanzez dei Cigarettes After Sex, qui la cantante racconta di quanto possa essere difficile ottenere ciò che si vuole, quanto possa essere straziante fare tanti sacrifici per arrivare alla felicità e lo fa in una maniera del tutto personale, preservando la propria identità attraverso l’accompagnamento di una semplice chitarra. Significativo il confronto tra una delle prime frasi: ‘Honey you’ll never now what I did to get you’ e l’ultima frase, quasi lapidaria: ‘What I do all over again to get you’: non è importante quanto sia stato difficile in passato, ma è importante non darsi mai per scontati e scegliersi ogni giorno per preservarsi anche nel presente.

All’interno del disco sono numerosi i generi che la cantante inglese va a toccare e miscelare: dal folk (in pezzi come My Fun) all’indie-pop (in brani come, OMG e Faded), dal pop-rock fino ad arrivare ad una sfera puramente pop con importanti influenze di Billie Eilish, Lana del Rey, Cigarettes After Sex, Remi Wolf, Taylor Swift… Tornando ad un’analisi più dettagliata della tracklist, Everybody Breaks Up Anyway è un’altra traccia estremamente intima che celebra il concetto della rottura di una relazione; indipendentemente da chi tu sia, l’amore prima o poi terminerà; il testo estremamente pessimista è intonato in maniera rassegnata ed è condito esclusivamente da un pianoforte scarno e da cori nostalgici: anche qui è evidente la forte influenza di Billie EIlish.

Degna di nota è anche Big Love, forse la più energica dell’album; ‘Big Love is all I want’ la frase gridata con più sicurezza, scandita da una batteria estremamente potente a ricordarci che ognuno di noi dovrebbe puntare sempre in alto e tentare di alzare le aspettative.

A livello grafico, la copertina dell’album è estremamente ricca, quasi barocca con la cantante inglese che appare quasi come lo ‘Sparklemuffin’: come ha dichiarato lei stessa, infatti, il titolo dell’album fa riferimento al fatto che questo ragno faccia una danza per sedurre la sua amata ma, se non funziona, viene brutalmente divorato da questa. Suki Waterhouse, infatti, spera che questo disco possa piacere all’esigente mercato odierno musicale, senza essere divorata dalla sua stessa carriera. La cantante inglese, senza dubbio, ha creato un intricato collage musicale: verrà apprezzato o condannato dal pubblico?

3,0 / 5
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AcomeandromedA: La recensione di Omissis

A distanza di dodici anni da Occhio Comanda Clori, disco di debutto non che unico progetto, gli AcomeandromedA ritornano con “Omissis”. Questo contenitore di nove nuovi brani, pubblicati per Dischi Uappissimi (Buckwise, Bouvier, Lazzaretto), è una lente di ingrandimento sulla società moderna e sulla qualità della vita. 

La band, composta da Vito Indolfo (voce, flauto traverso), Willy Elefante (tastiere), Andrea Manghisi (chitarra), Matteo Simone (basso, synth) e Michele Manghisi (batteria), ha visto la luce per la prima volta all’inizio del 2008. Occhio Comanda Colori era si un progetto profondamente radicato nel rock, ma con decine di sfaccettature diverse. Il progressive si perde in una terra di confine a metà fra tempeste strumentali e strizzate d’occhio al pop. Da lì iniziano una serie di spettacoli live, non solo sul territorio italiano, intavolano collaborazioni con artisti internazionali e ampliano la loro visione di musica. Purtroppo tutto ciò non basta, perché gli AcomeandromedA si prederanno successivamente una lunga pausa, almeno fino a oggi (in realtà al 2022).

Messo in cabina di regia Giulio Ragno Favero, bassista del Teatro Degli Orrori, il gruppo ricomincia da dove si era fermato circa dieci anni fa. Con Omissis il quintetto pugliese, trova finalmente il modo di approcciarsi alla musica elettronica, tanto cercato prima del periodo di pausa, costruendo una palette sonora a metà fra Afterhours e Bluvertigo. 

omissis

L’album si apre subito con una delle tracce più interessanti. Le voci di Indolfo, immerse in ampi riverberi, galleggiano su stratificazioni di suoni sintetizzati e beat sincopati in Cosmiconica. La morbidezza dei primi minuti si schianta su assoli squillanti fill di batteria e suoni Industrial. Con Il racconto del passero, l’elettronica viene sovrastata da ritmi cadenzati e enormi distorsioni di chitarra prima che, su Tina, si torni alla leggerezza. Alla terza traccia capiamo quanto, ogni volta che droni, melodie sintetizzate o batterie elettroniche entrano a contatto con questo progetto, la band trovi uno spazio infinito per sperimentare, trovando in questo caso spazio per sax e archi.

Inizialmente pensato nel 2013, dopo un incontro con Max Casacci dei SubsonicaSalveremo il Mondo ha visto la luce oggi, dopo più di dieci anni, come singolo di punta di Omissis. Tornano graffianti stratificazioni di chitarra, che fanno da vere protagoniste del brano. Con La perfezione di una lacrima, la band si concede atmosfere acustiche, anche se per solo una manciata di secondi. La Title-track strizza l’occhio al pop e all’indie italiano. Omissis è un brano caldo, dove questa sono gli arpeggi di chitarra acustica ad uscirne protagonisti, prima di tornare alle sonorità che rendono questo album davvero interessante. Sto parlando Andrearitmia, dove noise e shoegaze danzano sotto le rauche voci di Indolfo.

Flauti e corde di nylon portano il disco alla chiusura, in una traccia messa insolitamente alla fine del disco. Intro viene sporcata da sonorità folk, a tratti quasi orientali, insinuandosi direttamente sull’outro di Omissis. Mello Mello è un’altra delle canzoni più longeve di questo progetto. Rilasciata inizialmente nel 2014, con il nome di Sleeping Lotus, dall’artista taiwanese Waa Wei Ruxuan, il brano trova una nuova energia sul finale dell’album.

/ 5
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Clauscalmo: La recensione di Passo Monteluna

  • Clauscalmo – Passo Monteluna
  • 19 aprile 2024
  • ℗ La Tempesta Dischi

Clauscalmo si presenta come un progetto intimo e stratificato, nel quale l’autrice investe musicalmente per creare un genere ibrido che riunisca un ascolto retro e una potenza atavica. Il progetto solista di Clara Romita, artista e batterista salentina classe 1994, giunge dopo vari episodi musicali pubblicati sporadicamente a un vero e proprio album, due anni dopo l’ep Record e varie collaborazioni (72-Hour Post Fight, Any Other, Montag, Vipera). Il suo particolare stile, che nei live del suo progetto la vedono cantante e allo stesso tempo percussionista, è arricchito da uno stile musicale complesso ma anche lineare, onirico e ritmico insieme. 

Passo Monteluna, un nome ispirato dalla serie videoludica “Star Fox”, esprime in poco più di una mezz’ora le idee creative della sua autrice. La nuova produzione, condotta insieme a Niccolò Cruciani (C + C = Maxigross), esce per La Tempesta Dischi il 19 aprile 2024. Le undici tracce inserite nel disco sono anticipate da due singoli presenti nell’album, Il nome del capitano e A metà

Passo Monteluna

La musica di Clauscalmo viaggia tra un’epoca e l’altra, che tocca un cantautorato vintage e subito dopo svolazza verso la musica contemporanea e i suoi sperimentalismi. Un soffice motivo di chitarra apre il disco, in cui si inseriscono con dolcezza gli altri strumenti e il cantato (Casca la terra). L’atmosfera del disco è stata appena messa sul piatto, e prosegue lungo tutta la sua spina dorsale. La voce accompagna sottile, avvolta bene nelle trame delle composizioni; i ritornelli sono invitanti ed efficaci, e spesso sublimano l’insieme degli strumenti presenti nei brani.

Il singolo A metà incatena chi ascolta in un ritmo gentile, esordito dalle pennate di una chitarra elettrica, e cresce progressivamente fino a una sorda esplosione. Se lui non viene incalza l’ascoltatore fino ai due interludi centrali del disco, Reprise e Niente da fare, e approda all’armoniosa ed evocativa Un brutto sogno si ripete spesso. Infilato tra due tracce di raccordo, le quali abbracciano un ensemble di strumenti, c’è Patti chiari, che unisce un elaborato songwriting a dritte sezioni musicali. Ora io vado via è una giusta fine del viaggio, un brano lungo e conclusivo, che certifica e porta a compimento l’ambiente uditivo che è stato impalcato finora.

Clauscalmo lascia l’ascoltatore in balia di un lento viaggio dentro un sapere intimo e circoscritto, in cui le riflessioni musicali gli fanno da padrona. È un viaggio di maturità e coscienza, per un disco d’esordio dal sound riconoscibile e che ispira una pregevole sicurezza artistica. L’ascolto del disco ispira coerenza e confidenza, riuscendo ad aprire le porte del mondo ben illustrato e a dare l’idea che definisce lo stile musicale di Clauscalmo. 


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5,0 / 5
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Fu il Periodo Blu: La recensione del debutto di River X

  • Fu il Periodo Blu – River X
  • 12 Luglio 2024
  • River X

In “Fu il Periodo Blu”, EP di debutto di River X, al secolo Luca Carnevale, l’elettronica avvolge una ovattata e cupa visione di angoscia e precarietà. Mai nome fu più azzeccato di questo. Chi ascolta musica in inglese, sa quanto il colore Blu rappresenti una chiave di lettura molto importante per i testi. Esprime la tristezza come nessun’altra parola riesce a fare, crea atmosfera e, in qualche modo, contribuisce a renderci parte di ciò che stiamo ascoltando. 

In “Fu il Periodo Blu”, in realtà, la chiave di lettura principale non è proprio questa, o meglio è più articolata di così. L’EP prende il nome dal Periodo Blu di Picasso. Durante i primi anni del 900, l’artista utilizzò proprio il colore blu, come parte preponderante dei sui lavori, per raccontare una Spagna cupa, dolorosa e precaria. In questo progetto non ci sono prostitute, mendicanti, e ubriachi, ma nonostante ciò è ricco di similitudini con quella fase artistica del pittore spagnolo. 

Fu Il Periodo Blu

“Fu il Periodo Blu” è un diario di bordo – uno scatolone dove intrappolare i brutti ricordi. Un attimo di lucidità per fare un’autoanalisi sul proprio passato. L’unico modo possibile di spogliarsi di un po’ di quel blu che avvolge, chi più, chi meno, ognuno di noi. 

Ad aprire l’EP è “Presa di coscienza”. Lungo poco meno di due minuti ci ritroviamo immersi in un ambiente sfocato, quasi onirico. Persino le tracce vocali appaiono sbiadite, avvolte da una strumentale che fa della melodia la protagonista, intenta a cullarci con note dolci prima di catapultarci in balia della tempesta. E la tempesta arriva nell’autoanalisi di “Vernissage”. Tra sovrapposizioni di percussioni africane e stratificazioni di samples e sintetizzatori, la voce di Carnevale appare ancora avvolta dalla melodia, le linee vocali si trasformano quasi in sussurri, mentre il cantautore si guarda dentro. 

I vocal chops di “Le api ci diranno” aprono la porta a un brano più canonico, in cui l’artista si concede un rap fuori dagli schemi. Con “Manifesto”, traccia di chiusura di Fu il Periodo Blu, ci spostiamo in ambienti sonori ancora diversi. Elettronica e breakbeat si fondono in una traccia dal ritmo rallentato, che strizza dolcemente l’occhio al trip-hop.


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/ 5
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Cigarettes After Sex: La recensione di “X’s”

  • Cigarettes After Sex – X’s
  • 12 Luglio
  • Partisan Records

Come suona la sensualità? 
Potremmo chiedere ai Cigarettes After Sex, autori di un dream pop minimale che negli ultimi dieci anni ha fatto sognare milioni di persone.
Anche se la musica cambia velocemente, la band texana non si scompone e rilascia X’s, riproponendo in dieci brani la formula sonora con cui hanno conquistato la fama mondiale prima sul web, poi sui palchi, trasudando sensualità e impulsi passionali contagiosi.
Il mix di influenze musicali, come dichiarato dagli stessi CAS, va dai Cocteau Twins a Morricone, fino ad arrivare ai Mazzy Star, riuscendo a trovare una voce personale.

X's

Viaggiando sempre su tonalità di bianco/grigio/nero, la voce androgina di Greg Gonzales sfuma il dolore e la malinconia raccontando in X’s un amore ormai finito. 
Il leader, tra l’altro, ha voluto registrare nello stesso appartamento in cui viveva con la sua ex, forse per terapia d’urto o magari per orchestrare le emozioni, assorbendo l’atmosfera delle stanze in cui quell’amore si è manifestato nel quotidiano, per poi affievolirsi.
C’è molto contrasto, perché il dramma è alleggerito dalle strutture melodiche. Per cui si riesce, ancora una volta, ad essere “megafono emozionale” che vibra nel cuore sognante/dolorante degli ascoltatori.
Per fare tutto questo, però, rimangono fin troppo fedeli a sé stessi. Gonzales ne è consapevole perché le sue canzoni, come ha dichiarato, non devono essere chissà quanto ricamate, basta il minimo e indispensabile per creare l’atmosfera giusta.
Certo, la tentazione di affermare che i brani sono tutti uguali sin dal primo disco è molto forte, ma cerchiamo di trovare qualche traccia di novità.

Innanzi tutto si ha l’impressione che, nel complesso, l’andamento slow-tempo abbia ceduto il passo al mid-tempo. 
Poi c’è l’interpretazione del cantante, che sicuramente non si discosta dal suo stile, ma nasconde una leggera tendenza a sussurrare con meno intensità.
Fondendo queste due considerazioni l’album suona più pop che dreamy, ma in realtà per il cantante “il disco sembra brutale”, sempre perché al centro di tutto c’è una separazione dolorosa da cui non riesce a prendere le distanze con indifferenza.
Ma per chi fatica a metabolizzare il contrasto tematiche/sonorità, si consiglia di ascoltare Hideway, diversa dal resto per giro di accordi, scenario simbolico e carica emotiva. Minimale, slow-tempo e vagamente dark, è l’intimo “nascondiglio” di due innamorati (“Now the sun’s out/ we’re feeling its sweet light/Waves are crashing/ they’re flying those long kites”), una coccola dolceamara da mettere in sottofondo stringendosi tra il cuscino e le lenzuola.
Anche Baby Blue Movie, nostalgica e dark-dreamy, rompe leggermente lo schema di composizione classico dei texani. Qui Gonzales riflette sull’importanza di riconoscere il valore dell’amore vissuto nel momento presente, distaccandosi dall’idealizzazione e dall’approccio da favola.

Tutto il resto, a livello musicale, rimane appunto molto fedele a quanto già ascoltato in Cigarettes After Sexed in Cry. Ed effettivamente è difficile allontanarsi da una formula sonora che funziona così bene. Si possono fare diverse ipotesi su “come avrebbe suonato quest’album se…” ma alla fine, ad oggi, Gonzales ha un disco in più con cui può superare le sue vicende amorose. Noi altri ci accontentiamo di un’altra manciata di canzoni ben fatte e che in un modo o nell’altro vanno in coda alla “playlist d’atmosfera” da tenere pronta in tutte le situazioni in tonalità bianco/grigio/nero.


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/ 5
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Paix & Funk: Recensione dell’EP di debutto di Braoboy

Al secolo Emanuele Tosoni, l’autore/produttore si approccia alla musica per la prima volta a undici anni, da li in poi la musica diventa una costante nella sua crescita. Liceo musicale e poi conservatorio, viaggiano in parallelo con una grande passione per gli anni 70/80 e 90, che sono i veri protagonisti di Paix & Funk. A dirla tutta, questo non è realmente il primo progetto di Braoboy, almeno non in termini assoluti. Il musicista si butta nel settore musicale per la prima volta nel 2019, quando inizia a suonare come turnista in tutta Europa con diversi artisti e gruppi (Chiamamifaro, Elasi, Darn…). Nel 2020 inizia a esplorare l’attivtià da producer. Nel 2021 pubblica, sotto il nome di “Furamingo” il suo primo vero EP, un progetto lo-fi, e diversi remix Disco-Funk. Nello stesso anno inizia a pensare a quello che diventerà Paix & Funk.

Sotto l’ala dell’etichetta indipendente Nufabric Records (Anna Carol, Stramare, Vergine…), Braoboy ha potuto sperimentare e lavorare quanto più possibile il suono distintivo di questo EP, nonostante complicazioni iniziali date da un modo diverso della concezione del fare musica. Se pur le influenze sonore ricordino situazioni felici e giocose (non è forse questo il cuore del Funky?), Paix & Funk esplora, in realta, dinamiche molto più complesse. Lungo poco più di un quarto d’ora, Braoboy si avventura in tematiche sociali, incomunicabilità e rapporti di dipendenza affettiva, trovando spazio anche per viaggi introspettivi.

Paix & Funk

Il disco si apre con massicci pattern percussivi e sintetizzatori stratificati in Villapizzone. La traccia trasuda atmosfere vintage. Non solo dal punto di vista dei suoni, ma anche dal paesaggio descritto nel testo, che pur facendo solo da sfondo, aiuta a comprendere meglio da cosa l’artista è stato influenzato durante la stesura di questo progetto. Masaniello crea un contrasto netto fra sonorità futuristiche, electro pop e solitudine, mentre su Mayday la sezione ritmica rallenta, la voce si perde nel riverbero e quello che si crea è un tappeto perfetto per un testo che analizza le dipendenze affettive. I deboli arpeggi di Rhodes guidano una delle tracce costruite meglio in questo EP. 

Mi prendo in giro usa calde linee melodiche di Synth mentre strizza l’occhio alla scena indie italiana attuale. Sulla traccia di chiusura Cosa Cerco da Te, il cantautore si sposta verso ambienti sonori sporchi e sintetizzatori acidi, alle prese con quella che sembra essere una relazione travagliata. 


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/ 5
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A MARE: La recensione del disco di debutto di Cristiana

Quello che stiamo ascoltando non è un disco di canzoni. A MARE è il titolo del primo progetto discografico di Cristiana. È l’ennesima prova del turbine creativo che si cela nel sottosuolo musicale italiano. È importante soffermarsi sulla frase di apertura di questo articolo. L’album non è un disco di canzoni, perché ogni brano non nasce come tale. Prima di essere canzoni, le tracce sono poesie. È bene tenerlo a mente durante l’ascolto di questo progetto, poiché si potrebbe rimanere inizialmente disorientati, se non si è abituati agli storytelling musicali. La classica forma-canzone, non ha spazio in questo progetto e i testi difficilmente si legano a metriche standard.

A MARE è un fiume in piena, dove le parole escono così come sono, senza dar troppo peso a dove metterle o come incastrarle. L’altro filo conduttore del disco, che si lega perfettamente alla poesia è l’amore, non quel tipo di amore che ci viene in mente appena sentiamo questa parola. È descritto quasi astrattamente. 

Nelle sonorità, ci troviamo invece su ambientazioni più canoniche. A MARE gioca molto su un mix di suoni a metà fra cantautorato italiano e un indie di respiro internazionale. Ogni strumento rimane libero nelle stesse ambientazioni delle poesie che compongono il disco. Spesso appaiono fuori fuoco, lasciando spazio solo alla voce di Cristiana, in alcuni casi anche troppo. È un suono ancora grezzo, ma non per questo meno interessante. Nella produzione e negli arrangiamenti (sviluppati incredibilmente bene), l’artista si è affidata ad Alex Ferro (i Santini).

A MARE

Ad aprire l’album è intro. Gli arpeggi di chitarra si intrecciano con un’ampia struttura di sintetizzatori. I droni creano un’atmosfera perfetta, dove veniamo introdotti a tutto ciò che ascolteremo per il resto di A MARE. Su Verde ci scontriamo con un’ottima produzione, la chitarra, pur sempre presente si defila, per lasciare spazio a piani elettrici e synth. Tutto è attentamente dosato, non c’è alcun tipo di sfarzosità ad appesantire la traccia. Poesia è forse la traccia che più si avvicina ad una forma canzone più classica. Il brano, dedicato alla nonna, cresce emotivamente ogni secondo di più, liberandosi in un outro strumentale che sembra perdersi nell’aria.

Un po’ De André, un po’ Calcutta, Finestra altro non è che un ricordo. Di giornate passate a leggere, pensare, ascoltare musica. Ogni momento, anche il più piccolo, che possa trasmettere un barlume di emozione, si insinua in A MARE, per colorarlo, per renderlo autentico, per renderlo vivo. Fragile rimane sullo stile del brano precedente, spogliandosi di ogni strumento superfluo e lasciando il posto da protagonisti a chitarra acustica e percussioni. 

Pur mantenendo qualche punto debole, quello che troviamo su A MARE, si conferma comunque piuttosto interessante. I dischi di debutto sono un po’ questi, servono per prendere le misure, capire dove si sta andando e impostare l’asticella.


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Radiosoul: La recensione del quarto disco di Alfie Templeman

Se sei un adolescente in cerca di un posto nel mondo, potrai ritrovarti nelle parole di questo nuovo album. Radiosoul è l’ultimo capolavoro di Alfie Templeman, un giovane cantautore britannico, classe 2000, descritto da British Vogue come “una stella nascente” e noi non possiamo che essere d’accordo con questa definizione. L’album è formato da undici brani, che passano da ritmi più vivaci a lenti tra una canzone e l’altra. Questa scelta stilistica è proprio correlata all’adolescenza, un periodo di vita così complesso e impossibile da definire propriamente. Infatti, è proprio questa la tematica affrontata da Templeman: il cambiamento causato dalla fine dell’adolescenza, il difficile rapporto con i social media e con i genitori, l’ansia e la paura del futuro.

Radiosoul

“Eyes Wide Shut” è la prima canzone che Alfie Templeman ha scritto per l’album. Il testo cita alcuni frammenti del diario del cantante, in cui descriveva, con precisione, alcuni momenti di ansia che ha affrontato dopo alcuni concerti; “Beckham” è un brano realizzato in collaborazione con Dan Carey. Il ritornello elenca alcuni quartieri (Sutton, Bexley, Tooting, Earlsfield…) che sono quelli in cui l’artista cercava casa dopo essersi trasferito a Londra nel 2023;

“Hello Lonely”, parla del senso di solitudine causato dalla pandemia e della difficoltà del cantante di essersi trovato davanti un grande pubblico dopo molto tempo. “Just A Dance” è l’unico brano dell’album in cui vi è una collaborazione con un altro musicista. Parliamo di Nile Rodgers, un chitarrista statunitense che ha dato un tocco di energia alla canzone e che è sempre stato un idolo per Templeman. Infatti quest’ultimo pensa che non ci sia nessuno che sappia suonare la chitarra bene come Rodgers! Dunque, Radiosoul è solo il secondo album di Alfie Templeman ma ricordatevi il suo nome, perché sono sicura che ne sentiremo parlare spesso.


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Folks: La recensione del debutto degli Haara

  • Haara – Folks
  • 25 Giugno 2024
  • ℗ Delma Jag Records

La band, nata nel 2018 a Lugano, composta da Lisa Attivissimo (voce), Raffaele Ancarola (chitarra), Massimiliano Marra (Basso), e Nicolas Pontiggia (batteria), si presenta al mondo musicale con un’immagine unica che parla da se.

Gli Haara non hanno bisogno di testi costruiti alla perfezione, incastri metrici o giochi di parole – la vera protagonista di questo brano è la melodia. Folks è una danza intorno al fuoco, tra immaginari folkloristici, persone e le culture da cui i membri stessi del gruppo provengono. Tutto si amalgama in maniera squisita, in un’ambientazione sonora calda e allo stesso tempo intrigante. È un tipo di rock alternativo a cui oramai siamo ampiamente abituati: suoni ed elementi tradizionali, dalle chitarre alle ritmiche “terzinate”, dalle percussioni world alle graffianti melodie di Charango, per finire alle tastiere. Tutto crea un’amalgama sonora capace di trascendere le epoche musicali. Folks racconta di tutto e di niente, è in tutti i posti e in nessun posto, e questo è il suo pregio più grande.

folks Haara

Può sembrarti di essere in un mercato affollato, immerso nei suoi suoni e rumori, o in una qualsiasi grande stazione all’ora di punta, circondato dallo scorrere frenetico del tempo. Da immensi banchi di persone che continuano a vivere le proprie vite, saldamente ancorate al ticchettio del loro orologio, noncuranti di chi hanno intorno. Per chi riesce a vedere il bicchiere mezzo pieno, questo brano può trasmettere anche un’energia positiva, un invito allo stare insieme, all’unione. Proprio come quella danza intorno al fuoco di cui parlavamo prima.

La voce di Lisa guida ogni secondo di Folks, come un capitano al timone della sua nave, ma non lo fa con le parole. È un continuo sovrapporsi di vocalizzi, scanditi da una sola parola: “People / People / People”. È un invito a tornare alla realtà e, man mano che il brano cresce, mentre la tensione aumenta, ci troviamo fuori da questo trip psichedelico, in silenzio, forse da soli, per accorgerci che tutto ciò che è successo nei precedenti due minuti e quarantotto secondi, si è completamente dissolto nel nulla.


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SHHHHHHH!: La recensione del nuovo EP di King Krule

  • SHHHHHHH! – King Krule
  • 20 giugno 2024
  • XL Recordings

Un anno fa, durante il tour di Space Heavy, King Krule inseriva nei suoi live qualche brano forse scartato dal disco e ne vendeva copie in flexi-disc. Quei brani, apprezzatissimi in live, si possono finalmente ascoltare ovunque. Questo è “SHHHHHHH!”, l’EP di cui non tutti sapevano di aver bisogno.

King Krule, al secolo Archy Marshall, non ha bisogno di presentazioni. Al giovane londinese è stata sempre riconosciuta una grande poliedricità, che si traduce in un sound personale e riconoscibile. Tutta la sua discografia è estremamente coerente e coltiva un’estetica precisa, fatta di influenze indie rock, darkwave, post-punk e punk-jazz. La pubblicazione di “SHHHHHHH!” non è una vuota manovra commerciale per ravvivare l’interesse verso un artista ad un anno dalla sua ultima uscita: l’EP aggiunge tasselli significativi al mosaico discografico di Marshall e i quattro brani funzionano bene in un disco autonomo.

Shhhhhhh!

Achtung!” è la traccia di apertura: oscura, riverberata al punto giusto, con una importante vena new wave. Il brano viene colorato da armonie un po’ più complesse rispetto a ciò che ci si aspetta di trovare in un brano new wave. L’armonia, insieme alla stratificazione di suoni, imprime al pezzo l’inconfondibile marchio di fabbrica di King Krule.

L’attitudine post-punk collega bene il secondo brano, “Time For Slurp“. Il timbro vocale e l’assolo di chitarra sono protagonisti ma non monopolizzano il discorso. La breve durata della traccia – 1 minuto e 57 – la fa suonare quasi come un intermezzo, senza nulla togliere alla sua solidità. In ogni caso, ha tutta l’aria di un brano che si presta ad una resa live scatenatissima.

L’EP cambia completamente direzione con “Whaleshark“, un delicato lento dalla fattura lo-fi. Archy Marshall, fra le altre cose, scrive bene: “Where’d it all go wrong?” chiede all’inizio del brano, parlando di affetti non più presenti. La musica che avresti voglia di ballare con la testa appoggiata al petto di qualcuno di speciale, ti lascia improvvisamente da solo. “Waited for you all night / And all day / Waited for you all day / And all day / And all night / But no show / They was never there“. E così, una scrittura perfetta condanna a godersi questo dolcissimo solo di sassofono in compagnia di un’assenza.

In 4 minuti e 18 di delirio, l’ultima traccia chiude l’EP con un cliffhanger. “It’s All Soup Now” è la formula utilizzata per commentare la confusione esistenziale dell’esperienza umana dove, alla fine, tutto viene messo in prospettiva e si mescola in un insieme dove ogni ingrediente è indistinguibile. La frase è pronunciata quasi con rassegnazione nella prima metà del brano, su una base musicale piuttosto minimale. Il brano evolve in qualcosa di molto più potente e affermativo con una solida linea di basso e un sassofono urlato, seguito improvvisamente da suoni elettronici che ricordano le suonerie dei telefonini di vent’anni fa.

C’è dell’ironia: l’ossessiva ripetizione di questa omogeneità esistenziale è sconfessata da un brano che varia tantissimo, in cui ciascun suono è ben distinto e aggiunge un colore. L’outro, dicevamo, è un cliffhanger. Il nichilismo funziona così: dopo una prima parte di decostruzione e una seconda di disintegrazione, occorre ricostruire. Succederà nel prossimo disco, magari a partire da quegli ultimi fraseggi elettronici?


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